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  11. <title>MEDIA INAF</title>
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  14. <description>Il notiziario online dell’Istituto nazionale di astrofisica</description>
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  23. <title>Con Venere, al limite della vita</title>
  24. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/30/con-venere-al-limite-della-vita/</link>
  25. <dc:creator><![CDATA[Giuseppe Fiasconaro]]></dc:creator>
  26. <pubDate>Tue, 30 Apr 2024 16:50:21 +0000</pubDate>
  27. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
  28. <category><![CDATA[News]]></category>
  29. <category><![CDATA[abitabilità planetaria]]></category>
  30. <category><![CDATA[Venere]]></category>
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  32.  
  33. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/30/con-venere-al-limite-della-vita/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/imagesvenus20191211Venus20191211-16.width-1320-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" /></a>Prendendo la Terra come esempio, sappiamo bene quali sono le condizioni di abitabilità che un pianeta dovrebbe avere per sostenere la vita come la conosciamo. Ma quali sono i limiti di questa abitabilità?  Viste le sue caratteristiche, Venere rappresenta un mondo accessibile il cui studio può aiutare a rispondere a questa domanda. Ne parla in dettaglio uno studio di review pubblicato su Nature Astronomy]]></description>
  34. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/30/con-venere-al-limite-della-vita/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/imagesvenus20191211Venus20191211-16.width-1320-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><div id="attachment_1753071" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/imagesvenus20191211Venus20191211-16.width-1320.jpg"><img fetchpriority="high" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1753071" class="wp-image-1753071 size-medium" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/imagesvenus20191211Venus20191211-16.width-1320-340x191.jpg" alt="" width="340" height="191" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/imagesvenus20191211Venus20191211-16.width-1320-340x191.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/imagesvenus20191211Venus20191211-16.width-1320-664x373.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/imagesvenus20191211Venus20191211-16.width-1320-768x432.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/imagesvenus20191211Venus20191211-16.width-1320-660x371.jpg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/imagesvenus20191211Venus20191211-16.width-1320.jpg 1320w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1753071" class="wp-caption-text">Immagine di Venere ottenuta combinando i dati delle missioni Magellano e Pioneer venus orbiter. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech</p></div>
  35. <p>Ha una temperatura superficiale che può fondere il metallo, una pressione atmosferica pari a quella che sulla Terra troviamo a circa 900 metri sotto il livello del mare e un cielo coperto da uno strato globale di nubi di acido solforico. Nonostante questo, il gemello infernale della Terra, com’è anche chiamato Venere, può darci importanti informazioni circa il potenziale di vita su altri pianeti, rappresentando un punto di riferimento per comprendere i <strong>limiti dell’abitabilità planetaria</strong>. È quanto si legge in un recente <a href="https://www.nature.com/articles/s41550-024-02228-5">studio</a> di <em>review </em>condotto dagli scienziati planetari <strong>Stephen Kane</strong> e <strong>Paul Byrne</strong>, pubblicato sulla rivista <em>Nature Astronomy.</em></p>
  36. <p>Uno dei principali obiettivi della ricerca astrobiologica è il rilevamento di biofirme e la comprensione dell&#8217;abitabilità dei pianeti extraterrestri, compresa la miriade di fattori che controllano l&#8217;evoluzione di questi mondi. <em><a href="https://www.nap.edu/catalog/26141/pathways-to-discovery-in-astronomy-and-astrophysics-for-the-2020s" target="_blank" rel="noopener">Astro2020</a></em> e <em><a href="https://nap.nationalacademies.org/read/26522/chapter/1" target="_blank" rel="noopener">Origins, Worlds, and Life: A Decadal Strategy for Planetary Science and Astrobiology 2023–2032</a></em>, due indagini che delineano le <strong>raccomandazioni per l’esplorazione spaziale futura</strong>, danno priorità alla comprensione di questo aspetto, ritenendolo un tema di ricerca chiave. Lo studio di Venere e della sua divergenza in termini di evoluzione climatica rispetto alla Terra sono fondamentali per perseguire quest’obiettivo ad elevata priorità scientifica.</p>
  37. <p><strong>Venere: l’antitesi dell’abitabilità</strong></p>
  38. <p>La domanda che forse vi starete ponendo è perché studiare l’abitabilità esoplanetaria utilizzando un pianeta inospitale come Venere. Nello studio in questione, la risposta dei ricercatori al quesito è chiarificatrice: «Rispetto alla Terra, Venere rappresenta l’antitesi dell’abitabilità, ma poiché illustra il potenziale di inabitabilità della maggior parte degli esopianeti di dimensioni terrestri (e rappresenta forse anche un&#8217;anteprima del futuro della Terra stessa), la comprensione del percorso che ha portato il pianeta a essere tale è importante quanto la comprensione del percorso che ha portato la Terra a essere abitabile». C’è inoltre una seconda spiegazione, che è connessa alla prima. La ricerca della vita nell&#8217;universo richiede lo sviluppo di una profonda comprensione degli oggetti all&#8217;interno del Sistema solare, in modo da poter interpretare meglio i dati dei pianeti in orbita attorno ad altre stelle. Una parte fondamentale di questa comprensione risiede nel confronto tra Venere e la Terra, poiché i due pianeti si trovano agli estremi opposti dello spettro di abitabilità.</p>
  39. <p>«Spesso presumiamo che la Terra sia il modello di abitabilità, ma se consideriamo questo pianeta isolatamente, non sappiamo quali siano i confini e i limiti di questa abitabilità. Venere ci permette di conoscere questi limiti», sottolinea <strong>Stephen Kane</strong>, astrofisico della <a href="https://www.ucr.edu/" target="_blank" rel="noopener">Uc Riverside</a> e primo autore dello studio.</p>
  40. <p><strong>Venere e la Terra: gemelli separati alla nascita</strong></p>
  41. <p>Nel Sistema solare, Venere è il pianeta più simile alla Terra. Nati dagli stessi “semi”, i due mondi hanno massa, dimensioni e probabilmente composizione simili. Tra i due ci sono tuttavia grandi differenze, dovute al fatto che a un certo punto della loro storia evolutiva i due corpi hanno preso strade diverse: la Terra è diventata abitabile, mentre Venere è diventato il mondo inospitale che conosciamo oggi.</p>
  42. <p>Venere sembra essere privo di un campo magnetico intrinseco, ha un&#8217;insolazione che è quasi il doppio di quella della Terra e un periodo di rotazione retrogrado di 243 giorni. La sua atmosfera, molto densa, è quasi interamente composta da anidride carbonica, con una piccola quantità di azoto e tracce di altri gas come biossido di azoto, argon e vapore acqueo. Il pianeta, inoltre, è avvolto da uno strato globale di nubi di acido solforico. L&#8217;insieme di tutte queste proprietà fisiche e chimiche rende la superficie di Venere più calda di un forno, motivo per cui è considerato il gemello infernale della Terra. Venere ci offre quindi un <strong>punto di ancoraggio</strong> nel discorso sull’abitabilità planetaria, poiché la sua storia evolutiva rappresenta un percorso alternativo rispetto alla Terra, anche se le origini di entrambi i mondi sono, presumibilmente, simili. La possibilità di studiare un pianeta relativamente vicino, di dimensioni terrestri, con un clima e un’abitabilità drammaticamente diversi dal nostro pianeta è un&#8217;opportunità che gli esopianeti non possono offrire. Venere rappresenta quindi un mondo accessibile per comprendere come l&#8217;abitabilità dei grandi mondi rocciosi si evolve nel tempo e quali condizioni limitano i confini dell&#8217;abitabilità.</p>
  43. <div id="attachment_1753141" style="width: 341px" class="wp-caption alignleft"><a href="https://www.nature.com/articles/s41550-024-02228-5/figures/2" target="_blank" rel="noopener"><img decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1753141" class="wp-image-1753141" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/vilow-306x340.jpeg" alt="" width="340" height="378" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/vilow-306x340.jpeg 306w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/vilow-598x664.jpeg 598w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/vilow.jpeg 660w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1753141" class="wp-caption-text">Schema che mostra le principali caratteristiche della Terra e di Venere a confronto. Crediti: Stephen R. Kane e Paul K. Byrne, Nature Astronomy, 2024</p></div>
  44. <p><strong>Un mondo, due approcci</strong></p>
  45. <p>Secondo gli scienziati, i modelli evolutivi che hanno portato Venere a essere quello che è oggi sono due. Il primo modello prevede che il pianeta si sia formato con un&#8217;atmosfera ricca di vapore d’acqua sopra un oceano di magma. Vista la vicinanza al Sole, il corpo celeste avrebbe poi disperso il suo calore nello spazio attraverso la perdita di quell&#8217;acqua atmosferica. In questa ipotesi, il pianeta avrebbe acquisito presto la sua ingombrante atmosfera e le condizioni infernali di superficie, e non sarebbe mai stato abitabile. L’altro modello suggerisce invece che, dopo la sua formazione, il pianeta sia stato in grado di raffreddarsi a sufficienza per far condensare l&#8217;acqua atmosferica sulla superficie. In questo caso, le nubi potrebbero aver contribuito a mantenere per un breve periodo condizioni superficiali più clementi anche sotto un Sole cocente, prima che imponenti eruzioni vulcaniche lo portassero nel suo stato attuale, probabilmente negli ultimi miliardi di anni.</p>
  46. <p>Date queste incertezze riguardanti l’evoluzione di Venere e le implicazioni che questa evoluzione ha rispetto agli esopianeti terrestri, gli autori propongono per il loro studio un <strong>approccio su due fronti</strong>: il primo coinvolge la scienza intrinseca di Venere, che è possibile studiare attraverso missioni spaziali dedicate; l’altro la scienza degli <em>exo-venus</em>, ovvero lo studio degli esopianeti analoghi a Venere.</p>
  47. <p>Lo studio delle proprietà intrinseche del pianeta attraverso missioni spaziali permetterebbe di stabilire definitivamente quale modello evolutivo sia corretto, spiegano i ricercatori. Ad esempio, l’analisi delle composizioni elementari e isotopiche dei gas nobili dell&#8217;atmosfera di Venere porrebbe vincoli importanti sull&#8217;inventario di sostanze volatili presenti agli albori del pianeta e sulla storia della perdita dell&#8217;acqua. Missioni dedicate permetterebbero inoltre di comprendere meglio l&#8217;attività vulcanica sul pianeta, consentendo di fare delle stime del tasso di degassamento e creare modelli della sua struttura interna.</p>
  48. <p>A questo proposito, la Nasa ha in programma due missioni gemelle su Venere per la fine di questo decennio, e il planetologo Kane è coinvolto in entrambe. Una è la missione <a href="https://ssed.gsfc.nasa.gov/davinci/" target="_blank" rel="noopener">DaVinci</a> (<em>Deep Atmosphere Venus Investigation of Noble Gas, Chemistry, and Imaging</em>), che esplorerà l&#8217;atmosfera del pianeta per misurarne i gas nobili e altri elementi chimici. L’altra è la missione <a href="https://www.jpl.nasa.gov/missions/veritas" target="_blank" rel="noopener">Veritas</a> (Venus Emissivity, Radio Science, InSAR, Topography &amp; Spectroscopy), che consentirà agli scienziati di ricostruire mappe dettagliate del paesaggio venusiano in 3d, rivelando se il pianeta abbia una tettonica a placche o vulcani attivi.</p>
  49. <p>L’approccio parallelo allo studio delle proprietà intrinseche di Venere riguarda invece l’analisi del vasto inventario &#8211; sempre in rapida crescita &#8211; di esopianeti terrestri simili a Venere: i cosiddetti analoghi. In questo senso, sottolineano gli scienziati, uno studio con il <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Metodi_di_individuazione_di_pianeti_extrasolari#Transito" target="_blank" rel="noopener">metodo dei transiti</a>, che ha una notevole propensione verso il rilevamento di pianeti di breve periodo, è più adatto a scoprire i pianeti che hanno proprietà atmosferiche simili a Venere piuttosto che alla Terra, e dunque a testare i limiti dell’abitabilità.</p>
  50. <p>Rimanendo sempre in tema di indagini per lo studio degli esopianeti e della loro abitabilità, gli autori sottolineano come gli esopianeti in orbita attorno a stelle luminose offrano opportunità ideali per osservazioni di follow-up tramite spettroscopia di trasmissione con <a href="https://www.media.inaf.it/tag/jwst/" target="_blank" rel="noopener">Jwst</a> e altri osservatori. Caratteristiche spettroscopiche chiave come l&#8217;assorbimento dell&#8217;anidride carbonica a 2.7 e 4.3 μm possono essere usate per distinguere un&#8217;atmosfera da quella presente sulla Terra, grazie anche all&#8217;estensione delle osservazioni alle lunghezze d&#8217;onda dell’Uv, dove l&#8217;assorbimento dell&#8217;ozono è prevalente. Inoltre, il rilevamento di combinazioni di <em>biosignature</em> importanti, come acqua e metano, può identificare pianeti con maggiori probabilità di ospitare condizioni di superficie temperate. È attraverso tali analisi spettroscopiche, comprese quelle nell’infrarosso, che la sfida di distinguere tra condizioni superficiali simili a quelle di Venere e della Terra potrebbe essere meglio superata.</p>
  51. <div id="attachment_1753140" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.nature.com/articles/s41550-024-02228-5/figures/1" target="_blank" rel="noopener"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1753140" class="wp-image-1753140 size-medium" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/v2low-340x186.jpeg" alt="" width="340" height="186" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/v2low-340x186.jpeg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/v2low-664x364.jpeg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/v2low-660x361.jpeg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/v2low.jpeg 685w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1753140" class="wp-caption-text">I vari fattori che influenzano le condizioni superficiali di un pianeta e la sua abitabilità. Crediti: Stephen R. Kane e Paul K. Byrne, Nature Astronomy, 2024</p></div>
  52. <p><b>Una lezione per tutti noi</b></p>
  53. <p>In definitiva, l’articolo sottolinea l’importanza di studiare Venere per due ragioni principali. Una è la possibilità, grazie ai dati che saranno ottenuti dalle future missioni, di utilizzare Venere per comprendere i confini dell’abitabilità planetaria di altri pianeti, e garantire così che le deduzioni sulla possibilità che esista vita su altri mondi siano corrette. «La parte sconfortante della ricerca di vita altrove nell&#8217;universo è che non avremo mai dati <em>in situ</em> per un esopianeta. Non andremo lì, non atterreremo e non effettueremo misurazioni dirette», dice a questo proposito Kane. «Se pensiamo che un pianeta abbia vita sulla superficie, potremmo non accorgerci mai di sbagliare e sognare un pianeta in cui essa sia presente quando invece non lo è. Riusciremo a capire bene questo aspetto solo studiando adeguatamente gli esopianeti di dimensioni terrestri che possiamo visitare. Venere ci offre questa possibilità».</p>
  54. <p>L&#8217;altro motivo riguarda il fatto che una conoscenza più approfondita di Venere è utile in quanto il pianeta potrebbe rappresentare un&#8217;anteprima di come potrebbe essere in futuro il nostro pianeta. «Uno dei motivi principali per studiare Venere ha a che fare con il nostro sacro dovere di essere <strong>custodi della Terra</strong>, per preservarne il futuro», sottolinea Kane. «La mia speranza è che dallo studio dei processi che hanno prodotto le attuali condizioni su Venere, possiamo trarne una lezione. Può succedere anche a noi. È una questione di come e quando».</p>
  55. <p>Comprendere appieno come un pianeta terrestre diventi abitabile e rimanga tale è una sfida fondamentale per la comunità scientifica, data la diversità e la complessità dei processi intrinseci ed estrinseci che contribuiscono a sostenere condizioni abitabili su scale temporali geologiche e biologiche. Di fronte a questa sfida, è imperativo sfruttare l’intera gamma di dati sull’evoluzione atmosferica dei pianeti terrestri all’interno del Sistema solare, concludono i ricercatori. Sebbene Venere rappresenti un mondo inabitabile, lo studio di Venere, la definizione del suo percorso evolutivo rispetto alla Terra e il riconoscimento di potenziali ambienti superficiali di tipo venusiano dedotti dagli spettri atmosferici di altri esopianeti, costituiranno insieme componenti essenziali per migliorare la nostra comprensione dell’abitabilità planetaria.</p>
  56. <p><strong>Il punto di vista di Giuseppe Piccioni, dirigente di ricerca Inaf</strong></p>
  57. <p>«Sono sicuramente d’accordo nell’affermare che il pianeta Venere è un valido punto di riferimento (o di ancoraggio, come riportato in articolo) per sostenere il concetto di abitabilità in termini più generali», dice a <em>Media Inaf</em> il planetologo dell’Inaf Iaps di Roma <strong>Giuseppe Piccioni</strong>, che abbiamo raggiunto per un commento. «Nella ricerca degli esopianeti, oggi possiamo senz’altro affermare che la stragrande maggioranza degli esopianeti potenzialmente abitabili sono più simili a Venere di quanto possano esserlo alla Terra. Oggi sappiamo che Venere è quanto di più inospitale e inabitabile ci possa essere nel Sistema solare, ma nel passato ha condiviso molte più similitudini con il nostro pianeta di quante ne abbia già oggi di rilevanti. Non è escluso infatti che Venere in passato fosse persino più abitabile della Terra ma che inesorabilmente abbia seguito suo malgrado una evoluzione molto più infausta del nostro pianeta. In questo senso, oggi potremmo osservare degli esopianeti “abitabili” molto simili a quelli del pianeta Venere all’inizio della sua formazione. Il concetto di abitabilità va infatti sempre legato al tempo di osservazione, dunque non è mai assoluto. Occorre anche dire che il concetto di <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Zona_abitabile" target="_blank" rel="noopener">zona abitabile</a>, legato alla distanza del pianeta dalla stella madre, è comunque una semplificazione basata sulla nostra conoscenza terrestre e su quello che oggi possiamo osservare negli esopianeti. Escludiamo in questo modo una vastissima quantità di mondi potenzialmente abitabili come gli <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Pianeta_oceanico" target="_blank" rel="noopener"><em>ocean worlds</em></a>, ovvero corpi celesti che hanno oceani sotto-superficiali, come ad esempio i satelliti ghiacciati di Giove e Saturno, che potrebbero ospitare vita ma con una evoluzione molto diversa da quella terrestre. Fino a quando non ne sapremo di più, non potremo includere questi <em>deep habitat</em> nel cesto delle nostre possibilità».</p>
  58. <p><strong>Per saperne di più:</strong></p>
  59. <ul>
  60. <li>Leggi su <em>Nature Astronomy</em> l&#8217;articolo &#8220;<a href="https://www.nature.com/articles/s41550-024-02228-5" target="_blank" rel="noopener">Venus as an anchor point for planetary habitability</a>&#8221; di Stephen R. Kane &amp; Paul K. Byrne</li>
  61. </ul>
  62. ]]></content:encoded>
  63. </item>
  64. <item>
  65. <title>Un ebook sull&#8217;universo per i 15 anni di Fermi</title>
  66. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/30/un-ebook-per-i-15-anni-di-fermi/</link>
  67. <dc:creator><![CDATA[Maura Sandri]]></dc:creator>
  68. <pubDate>Tue, 30 Apr 2024 13:46:39 +0000</pubDate>
  69. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
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  79.  
  80. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/30/un-ebook-per-i-15-anni-di-fermi/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/febookcovfinal-crop-150x150.png" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>Per commemorare un anniversario importante della storia del telescopio spaziale per raggi gamma Fermi della Nasa, il team della missione ha pubblicato un e-book intitolato “Our High-Energy Universe: 15 Years with the Fermi Gamma-ray Space Telescope”, scaricabile gratuitamente nei formati pdf ed epub. Con un commento di Patrizia Caraveo di Inaf]]></description>
  81. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/30/un-ebook-per-i-15-anni-di-fermi/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/febookcovfinal-crop-150x150.png" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><div id="attachment_1753094" style="width: 262px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/febookcovfinal.webp"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1753094" class="size-medium wp-image-1753094" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/febookcovfinal-261x340.webp" alt="" width="261" height="340" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/febookcovfinal-261x340.webp 261w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/febookcovfinal-510x664.webp 510w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/febookcovfinal-768x1001.webp 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/febookcovfinal-1179x1536.webp 1179w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/febookcovfinal-660x860.webp 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/febookcovfinal.webp 1536w" sizes="(max-width: 261px) 100vw, 261px" /></a><p id="caption-attachment-1753094" class="wp-caption-text">Copertina dell&#8217;e-book “Our High-Energy Universe: 15 Years with the Fermi Gamma-ray Space Telescope”. Crediti: Nasa</p></div>
  82. <p>Lanciato l&#8217;11 giugno 2008, il satellite della Nasa <a href="https://www.media.inaf.it/tag/fermi/" target="_blank" rel="noopener"><strong>Fermi</strong></a> rileva i <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Raggi_gamma" target="_blank" rel="noopener">raggi gamma</a>, la componente più energetica dello spettro elettromagnetico, dall&#8217;atmosfera terrestre alle galassie più lontane. Le sue ricerche hanno permesso di scoprire dettagli su aspetti che vanno dai <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Brillamento" target="_blank" rel="noopener">brillamenti solari</a>, alla <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Formazione_stellare" target="_blank" rel="noopener">formazione stellare</a> e ai misteri al centro della <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Via_Lattea" target="_blank" rel="noopener">Via Lattea</a>. Per commemorare un anniversario fondamentale della sua storia, il team della missione <strong>ha pubblicato un e-book</strong> intitolato “<em>Our High-Energy Universe: 15 Years with the Fermi Gamma-ray Space Telescope</em>”, scaricabile gratuitamente nei formati <a href="https://science.nasa.gov/wp-content/uploads/2024/04/our-high-energy-universe.pdf?emrc=6630ac61ea021" target="_blank" rel="noopener">pdf</a> ed <a href="https://science.nasa.gov/wp-content/uploads/2024/04/our-high-energy-universe.epub?emrc=6630ac61ed0be" target="_blank" rel="noopener">epub</a>.</p>
  83. <p>Attraverso immagini, aneddoti e ricordi del giorno del lancio, l&#8217;e-book racconta la storia di Fermi, dalla sua ideazione. Racconta anche alcune delle scoperte rivoluzionarie della missione, approfondendo argomenti di astrofisica ad alta energia come i <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Lampo_gamma" target="_blank" rel="noopener">gamma-ray burst</a> e i <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Blazar" target="_blank" rel="noopener">blazar</a>.</p>
  84. <p>Fermi, originariamente chiamato Gamma-ray Large Area Space Telescope, nell&#8217;agosto 2008 è stato rinominato in onore del fisico italiano Enrico Fermi. «La scienza di Enrico Fermi è stata importante per comprendere le sorgenti che il telescopio Fermi osserva», dichiara <strong>Elizabeth Hays</strong>, <em>project scientist</em> della missione presso il <a href="https://www.nasa.gov/goddard/" target="_blank" rel="noopener">Goddard Space Flight Center</a> della Nasa a Greenbelt, nel Maryland. «Il cielo dei raggi gamma è alimentato dai meccanismi di accelerazione delle particelle che lui aveva teorizzato».</p>
  85. <p>Ricordiamo ai lettori che il satellite ha due rivelatori di raggi gamma: il <em>Large Area Telescope</em> (Lat) e il <em>Gamma-ray Burst Monitor</em> (Gbm). Lat osserva un quinto del cielo gamma in qualsiasi momento, rilevando luce con energie che vanno da 20 milioni a oltre 300 miliardi di elettronvolt. Gbm osserva circa il 70% del cielo a energie inferiori, alla ricerca di brevi lampi di luce gamma. Insieme, i due strumenti costituiscono l&#8217;osservatorio di raggi gamma più sensibile in orbita, attrezzato per studiare i fenomeni ad alta energia dell&#8217;universo vicino e lontano.</p>
  86. <p>Nei primi otto anni di attività, Fermi ha rilevato le emissioni gamma di 40 brillamenti solari, alcune delle quali hanno avuto origine sul lato opposto del Sole, consentendo agli scienziati di analizzare come le particelle cariche emesse dai brillamenti solari da un lato del Sole possano produrre raggi gamma sull&#8217;altro lato.</p>
  87. <p>Studiando la Via Lattea, Fermi ha trovato due lobi di raggi gamma ad alta energia – chiamati <a href="https://www.media.inaf.it/2015/02/04/le-bolle-che-gonfiano-la-via-lattea/">bolle di Fermi</a> – che si estendono sopra e sotto il centro della galassia. Ogni bolla è alta 25mila anni luce. Gli astronomi ritengono che le bolle si siano formate in seguito a un&#8217;antica esplosione di attività del <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Sagittarius_A*" target="_blank" rel="noopener">buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea</a>.</p>
  88. <p>Infine, Fermi aiuta gli scienziati a comprendere anche i <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Buco_nero" target="_blank" rel="noopener">buchi neri</a> di altre galassie. «Quando un buco nero si forma, dalla morte di una stella massiccia o dalla collisione di due <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Stella_di_neutroni" target="_blank" rel="noopener">stelle di neutroni</a>, crea un breve lampo di luce chiamato gamma-ray burst», spiega <strong>Judith Racusin</strong> del Goddard. «Fermi rileva circa un burst al giorno e ha contribuito a rivoluzionare la nostra comprensione di questi fenomeni».</p>
  89. <p>Anche dopo 15 anni di risultati, tuttavia, Fermi deve ancora affrontare molti misteri. Uno degli obiettivi attuali del telescopio è studiare la natura della materia oscura, la misteriosa componente che costituisce circa il 25% dell&#8217;universo. Poiché la materia oscura non riflette, assorbe o emette luce, gli scienziati non sono ancora sicuri della sua composizione. Una teoria popolare suggerisce, tuttavia, che le particelle di materia oscura creino raggi gamma quando interagiscono. Se Fermi riuscisse a individuare questa traccia ad alta energia, potrebbe aiutare gli scienziati a saperne di più sulla composizione della materia oscura.</p>
  90. <p>Troverete buona parte di questa storia, e tanto altro ancora, nell’e-book di Fermi. «Lo e-book di Fermi è un affascinante viaggio nell&#8217;universo delle alte energie che, all&#8217;occorrenza, si anima con filmati. Per festeggiare il 15 anni della missione, a partire dallo scorso agosto erano state preparate delle schede relative agli aspetti salienti della missione e ai risultati più significativi ottenuti, ma anche per spiegare la natura dei fotoni gamma e il contributo dell&#8217;astronomia gamma alla risoluzione del problema dell&#8217;origine dei raggi cosmici, dei neutrini, delle onde gravitazionali. Ora il materiale, che era stato presentato sui social mese per mese, è stato organizzato in un libro che offre al lettore la possibilità di imbarcarsi in un viaggio cosmico», racconta a <em>Media Inaf  </em><strong>Patrizia Caraveo, </strong>responsabile per l’Inaf dello sfruttamento scientifico dei dati Fermi-Lat . «Si parte dalla Terra, che produce flash gamma sopra le nubi temporalesche, per passare ai brillamenti del Sole e alle sorgenti della nostra Galassia (pulsar, novae, resti di supernova, sorgenti binarie) per continuare con altre galassie, perdersi nello zoo dei nuclei galattici attivi a farsi sorprendere dai lampi gamma che ci offrono modo di andare lontanissimi. Per rendere il viaggio più piacevole ci sono intermezzi curiosi e divertenti, come le ricette per trasformare il cielo gamma in una torta o in biscotti. Confesso di avere mangiato il cielo gamma con diverse ricette di pasticceria fino dai tempi remoti di Cos-B».</p>
  91. <p>Se c&#8217;è una cosa che Fermi ci ha insegnato è di aspettarci l&#8217;inaspettato. La ricerca sui raggi gamma ha portato a scoperte senza precedenti nella comprensione del buco nero al centro della Via Lattea, del Sole e della fusione di stelle di neutroni. Per quanto ci aspettiamo la prossima rivelazione nei raggi gamma, solo il tempo ci dirà cosa ha in serbo Fermi.</p>
  92. <p><strong>Per saperne di più:</strong></p>
  93. <ul>
  94. <li>Scarica l’e-book in formato <a href="https://science.nasa.gov/wp-content/uploads/2024/04/our-high-energy-universe.pdf?emrc=6630ac61ea021" target="_blank" rel="noopener">pdf</a> (44.03 MB)</li>
  95. <li>Scarica l’e-book in formato <a href="https://science.nasa.gov/wp-content/uploads/2024/04/our-high-energy-universe.epub?emrc=6630ac61ed0be" target="_blank" rel="noopener">epub</a> (804.49 MB)</li>
  96. </ul>
  97. ]]></content:encoded>
  98. </item>
  99. <item>
  100. <title>Torna “Da zero a infinito”, a Padova</title>
  101. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/30/torna-da-zero-a-infinito-a-padova/</link>
  102. <dc:creator><![CDATA[Valentina Guglielmo]]></dc:creator>
  103. <pubDate>Tue, 30 Apr 2024 12:08:04 +0000</pubDate>
  104. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
  105. <category><![CDATA[Eventi]]></category>
  106. <category><![CDATA[INAF]]></category>
  107. <category><![CDATA[News]]></category>
  108. <category><![CDATA[Mostra]]></category>
  109. <category><![CDATA[OA Padova]]></category>
  110. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1753025</guid>
  111.  
  112. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/30/torna-da-zero-a-infinito-a-padova/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/zero_infinito-totem-e1714403881762-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>A partire dal 3 maggio sarà visitabile, all’interno del Castello di San Pelagio, a Padova, la mostra “Da zero a infinito”: un’esposizione itinerante dell’Inaf che sarà accompagnata da eventi e giochi per famiglie e da serate speciali per il pubblico, fatte di incontri a tema con gli astronomi]]></description>
  113. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/30/torna-da-zero-a-infinito-a-padova/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/zero_infinito-totem-e1714403881762-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><p>In un triangolo rettangolo la somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa. Tutti d’accordo? E invece…  «Forse non sapete che questa celebre formula è falsa. Almeno per noi che abitiamo su un pianeta sferico e non piatto come i fogli di un quaderno di geometria». Parola di <strong>Alessio Figalli</strong>, medaglia Fields 2018 – una sorta di “Nobel per la matematica” nell’approfondimento da lui curato per <a href="http://edu.inaf.it/index.php/da-zero-a-infinito/"><strong><em>Da zero a ∞. Equazioni, formule e incognite di una rappresentazione simbolica del cosmo</em></strong></a>, la mostra itinerante dell’Inaf che racconta le grandi leggi della fisica attraverso un percorso fatto di emozionanti scatti dell’universo conosciuto. Dopo Genova, Napoli, Bergamo, Faenza e Padova, <strong>a ospitarla a partire dal <a href="https://www.castellosanpelagio.it/2024/04/09/virtual-opening-3-3/" target="_blank" rel="noopener">3 maggio 2024</a> sarà il Castello di San Pelagio a Due Carrare (Padova)</strong>, luogo di partenza di D’Annunzio nel suo celebre volo verso Vienna. Il castello, infatti, è anche Museo del Volo. L’accesso alla mostra è compreso nel costo del biglietto di ingresso al castello, ovvero 15 euro per adulti e ragazzi di età superiore a 13 anni, e 10 euro dai 5 ai 12 anni. Tutte le informazioni per gruppi e famiglie, o per prenotare visite individuali sono riportate nel <a href="https://www.castellosanpelagio.it/contact-us/">sito web</a> del castello.</p>
  114. <div id="attachment_1753029" style="width: 353px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/zero_infinito-totem.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1753029" class="size-large wp-image-1753029" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/zero_infinito-totem-352x664.jpg" alt="" width="352" height="664" /></a><p id="caption-attachment-1753029" class="wp-caption-text">Il totem della mostra</p></div>
  115. <p>Ma torniamo alle leggi che governano l’universo, che la mostra si prefigge di mettere in scena. Dalla celebre equazione di Einstein E = mc² alla formula di Drake, da Pitagora a Heisenberg, dall’energia di un fotone alla lunghezza di Planck. La matematica, proprio come l’astrofisica, ha due volti: se da un lato costituisce un insieme di conoscenze a sé stanti, dall’altro è la sola lingua con la quale possiamo descrivere l’oceano di stelle in cui siamo immersi.</p>
  116. <p>Un allestimento avvolgente con immagini giganti e tanti contenuti extra disponibili <a href="http://edu.inaf.it/index.php/da-zero-a-infinito/">sul sito di Edu Inaf</a>: immagini, approfondimenti e il commento video di matematici e fisici che hanno partecipato al progetto: oltre ad <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/teorema-di-pitagora/"><strong>Alessio Figalli</strong></a>, <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/energia-di-un-fotone/"><strong>Stefano Camera</strong></a> e <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/legge-di-newton/"><strong>Susanna Terracini</strong></a> dell’Università di Torino, <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/equivalenza-massa-energia/"><strong>Matteo Viel</strong></a> della Sissa di Trieste, <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/equazione-di-campo-di-einstein/"><strong>Luigi Guzzo</strong></a> e <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/legge-di-hubble-lemaitre/"><strong>Piero Benvenuti</strong></a> delle Università di Milano e Padova, oltre agli scienziati Inaf <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/legge-di-wien/"><strong>Paola Battaglia</strong></a>, <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/legge-di-gauss/"><strong>Alessandro Bemporad</strong></a>, <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/secondo-principio-della-termodinamica/"><strong>Stefano Borgani</strong></a>, <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/principio-di-indeterminazione/"><strong>Massimo Della Valle</strong></a>, <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/raggio-di-schwarzschild/"><strong>Gabriele Ghisellini</strong></a>, <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/costante-di-struttura-fine/"><strong>Paolo Molaro</strong></a>, <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/formula-di-drake/"><strong>Isabella Pagano</strong></a>, <a href="http://edu.inaf.it/index.php/immagine_infinito/limite-di-eddington/"><strong>Anna Wolter</strong></a>.</p>
  117. <p>Si parte con una veduta mozzafiato del pianeta Terra, visto dalla Stazione spaziale internazionale, e collegata alla più semplice delle formulazioni: quella del teorema di Pitagora. Dalla Turchia in primo piano, si sale attraverso il Mar Egeo, la Grecia e il Mar Ionio dove si intravedono la Sicilia e il tallone d’Italia – la Magna Grecia dove Pitagora visse e lavorò nel VI secolo a.C.</p>
  118. <p>A partire da maggio e durante i mesi estivi, la mostra sarà accompagnata da una rassegna di eventi speciali per il pubblico, attività per le famiglie e incontri con gli astronomi. Nelle domeniche del 12, 19 e 26 maggio, alle 11.30 e alle 15.30 si svolgerà “<a href="https://www.castellosanpelagio.it/2024/04/11/da-zero-a-infinito/">Space Game</a>”, un entusiasmante viaggio alla scoperta del Sistema Solare. Una vera e propria corsa alla scoperta del Sistema solare dove i giocatori dovranno seguire una serie di indizi per individuare i pianeti del nostro sistema planetario nascosti nel giardino e tra le stanze del museo.</p>
  119. <p>Nelle serate del 5 e 19 luglio, e 2 agosto, si svolgeranno una serie di incontri con astronomi dell’Inaf, in cui si potranno ascoltare alcuni racconti su temi specifici della ricerca astrofisica. A parlarvene saranno <strong>Bianca Poggianti</strong>, direttrice dell’Inaf di Padova, <strong>Anna Wolter</strong>, tra i curatori della mostra è rappresentante, per l&#8217;Italia, della rete di divulgazione scientifica dello European Southern Observatory, e <strong>Simone Zaggia</strong>, ricercatore all’Inaf di Padova.</p>
  120. <p>Troverete tutte le informazioni sugli eventi nella sezione “news” del <a href="https://www.castellosanpelagio.it/events/">sito</a> del Castello di San Pelagio.</p>
  121. <p><strong>Guarda e ascolta la playlist con le schede multimediali della mostra:</strong></p>
  122. <p><iframe loading="lazy" title="Da zero a infinito: il teorema di Pitagora" width="665" height="374" src="https://www.youtube.com/embed/xZ2ASsWXIlg?list=PL2SbTrD6Lu3_ptkdTFvrLvVc5MUS6uvEF" frameborder="0" allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture; web-share" referrerpolicy="strict-origin-when-cross-origin" allowfullscreen></iframe></p>
  123. <p>&nbsp;</p>
  124. ]]></content:encoded>
  125. </item>
  126. <item>
  127. <title>A volte ritornano: segnali da Voyager 1 e da Slim</title>
  128. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/29/risveglio-voyager-1-slim/</link>
  129. <dc:creator><![CDATA[Marco Malaspina]]></dc:creator>
  130. <pubDate>Mon, 29 Apr 2024 17:06:50 +0000</pubDate>
  131. <category><![CDATA[News]]></category>
  132. <category><![CDATA[Spazio]]></category>
  133. <category><![CDATA[Jaxa]]></category>
  134. <category><![CDATA[NASA]]></category>
  135. <category><![CDATA[SLIM]]></category>
  136. <category><![CDATA[Voyager 1]]></category>
  137. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1753035</guid>
  138.  
  139. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/29/risveglio-voyager-1-slim/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/cover-voyager-slim-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>Due attesissime chiamate dallo spazio hanno raggiunto il nostro pianeta nei giorni scorsi. Una è arrivata dal piccolo lander giapponese Slim, adagiato sul suolo lunare dal 20 gennaio, giunto alla sua terza alba lunare. L’altra dalla sonda Voyager 1 della Nasa, ormai a oltre 24 miliardi di km dalla Terra, che da cinque mesi non riusciva più a inviare pacchetti di dati correttamente formati]]></description>
  140. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/29/risveglio-voyager-1-slim/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/cover-voyager-slim-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><div id="attachment_1753037" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/V1.jpeg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1753037" class="size-medium wp-image-1753037" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/V1-340x191.jpeg" alt="" width="340" height="191" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/V1-340x191.jpeg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/V1-664x374.jpeg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/V1-768x432.jpeg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/V1-660x371.jpeg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/V1.jpeg 1200w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1753037" class="wp-caption-text">Rappresentazione artistica di una sonda Voyager. Crediti: Nasa</p></div>
  141. <p>Due chiamate dallo spazio hanno raggiunto il nostro pianeta nei giorni scorsi. Una è arrivata dal piccolo lander giapponese <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Smart_Lander_for_Investigating_Moon">Slim</a>, adagiato sul suolo lunare <a href="https://www.media.inaf.it/2024/02/01/slim-funziona/">dal 20 gennaio scorso</a>. L’altra da una vecchia conoscenza, la sonda <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Voyager_1">Voyager 1</a> della Nasa, distante <a href="https://theskylive.com/how-far-is-voyager1">oltre 24 miliardi di km</a> – il manufatto più lontano che ci sia. Per differenti ragioni, entrambe le chiamate – per quanto attesissime – erano tutt’altro che scontate.</p>
  142. <p>Partiamo da quest’ultima. Lanciata nello spazio il 5 settembre 1977, appena due settimane dopo la sonda gemella Voyager 2, e giunta da tempo oltre il confine dell’eliosfera, dunque nello spazio interstellare, <a href="https://www.media.inaf.it/2022/08/30/voyager-problema-aacs-risolto/">non è la prima volta</a> che Voyager 1 mostra comprensibili segni di affaticamento. L’ultimo però stava preoccupando gli scienziati del Jet Propulsion Laboratory della Nasa più del solito: era infatti dal 14 novembre 2023 che <a href="https://twitter.com/NASAJPL/status/1734617628545564771">la sonda non si faceva più viva</a>. O meglio, non riusciva più a inviare dati leggibili: a Pasadena, in California, al centro di controllo della missione sapevano che la sonda continuava a ricevere i comandi e a funzionare normalmente, ma i pacchetti di telemetria, sia quelli scientifici che quelli ingegneristici, erano del tutto inutilizzabili.</p>
  143. <p>Il responsabile, <a href="https://blogs.nasa.gov/sunspot/">erano arrivati a stabilire gli ingegneri della Nasa il mese scorso</a>, questa volta era uno dei tre computer di bordo della sonda: l’Fds (dall’inglese <em>flight data subsystem</em>), vale a dire il sottosistema per i dati di volo. Formato da <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Voyager_program#Computers_and_data_processing">due macchine a 16 bit</a>, l’Fds ha il compito di impacchettare i dati scientifici e ingegneristici prima del loro invio verso la Terra. Compito che evidentemente non riusciva più ad assolvere in modo corretto. Un ingegnere del Deep Space Network della Nasa, la rete che gestisce le antenne radio che comunicano con le due sonde Voyager e con molte altre navicelle spaziali, era comunque riuscito a decodificare il segnale, scoprendo che conteneva una copia dell’intera memoria dell’Fds stesso. Un’informazione preziosa: confrontandola con una delle letture precedenti al malfunzionamento, è stato infatti possibile non solo comprendere la causa esatta del problema, ma anche come risolverlo. A produrre il malfunzionamento è stata la rottura di un chip responsabile della gestione di una porzione della memoria dell’Fds: poiché in quei banchi di memoria c’era parte del codice dello stesso Fds, non potervi più accedere aveva reso i dati scientifici e ingegneristici inutilizzabili.</p>
  144. <blockquote class="twitter-tweet">
  145. <p dir="ltr" lang="en">Sounding a little more like yourself, <a href="https://twitter.com/hashtag/Voyager1?src=hash&amp;ref_src=twsrc%5Etfw">#Voyager1</a>.<br />
  146. For the first time since November, Voyager 1 is returning useable data about the health and status of its onboard engineering systems. Next step: Enable the spacecraft to begin returning science data again: <a href="https://t.co/eZyqo7uERu">https://t.co/eZyqo7uERu</a> <a href="https://t.co/6YZM33Mp48">pic.twitter.com/6YZM33Mp48</a></p>
  147. <p>— NASA JPL (@NASAJPL) <a href="https://twitter.com/NASAJPL/status/1782454277895749857?ref_src=twsrc%5Etfw">April 22, 2024</a></p></blockquote>
  148. <p><script async src="https://platform.twitter.com/widgets.js" charset="utf-8"></script></p>
  149. <p>Come fare? Essendo impossibile riparare il chip, gli ingegneri della missione hanno deciso di spostare il codice su un’altra porzione di memoria. Non essendocene però una libera abbastanza ampia da ospitarlo per interno, hanno dovuto suddividerlo in parti più piccole e riadattarlo per far sì che potesse continuare a funzionare, sebbene non più contiguo ma spezzettato in tanti segmenti. Compito non semplice ed errori non ammessi, dovendo installare il tutto su un computer di mezzo secolo fa e a 24 miliardi di km dal più vicino servizio di riparazione.</p>
  150. <p>Il team si è dunque messo all’opera trasferendo solo una parte del codice, quella dedicata all’impacchettamento dei dati ingegneristici. L’upload ha avuto inizio lo scorso 18 aprile, ma poiché viaggiando alla velocità della luce un segnale radio impiega oltre 22 ore per raggiungere la sonda e altrettante per tornare indietro, solo due giorni più tardi – il 20 aprile – è stato possibile ottenere una risposta: la modifica ha avuto successo. Per la prima volta in cinque mesi, è stato così possibile verificare lo stato di salute della navicella. Nel corso delle prossime settimane verranno ricollocate anche le restanti porzioni di codice, così che anche il flusso di dati scientifici dall’avamposto umano più remoto possa riprendere regolarmente.</p>
  151. <p><strong>Terzo risveglio per il lander lunare Slim </strong></p>
  152. <p>Nel frattempo, come dicevamo, dopo una lunga e gelida notte lunare – oltre 14 giorni terrestri al buio e con temperature che sfiorano i 170 gradi sotto zero – il 23 aprile sono giunti segni di vita anche dal lander giapponese Slim. Lo ha fatto sapere la Jaxa <a href="https://twitter.com/SLIM_JAXA/status/1783330118683050427">con un tweet</a> comprensibilmente entusiastico, considerando che il piccolo modulo non era pensato per resistere così a lungo, né tanto meno si era messo in conto che avrebbe dovuto trascorrere la sua permanenza sulla Luna <a href="https://www.media.inaf.it/2024/02/01/slim-funziona/">con il muso rivolto verso il basso</a>.</p>
  153. <blockquote class="twitter-tweet">
  154. <p dir="ltr" lang="en">We successfully communicated with <a href="https://twitter.com/hashtag/SLIM?src=hash&amp;ref_src=twsrc%5Etfw">#SLIM</a> on 04/23, confirming that SLIM survived its 3rd night! This is the lunar surface taken by the navigation camera on 04/23. Because this was captured during the earliest Moon phase yet, the Moon is bright and shadows are short. <a href="https://twitter.com/hashtag/GoodAfterMoon?src=hash&amp;ref_src=twsrc%5Etfw">#GoodAfterMoon</a> <a href="https://t.co/ppqanYWGvH">pic.twitter.com/ppqanYWGvH</a></p>
  155. <p>— 小型月着陸実証機SLIM (@SLIM_JAXA) <a href="https://twitter.com/SLIM_JAXA/status/1783330118683050427?ref_src=twsrc%5Etfw">April 25, 2024</a></p></blockquote>
  156. <p><script async src="https://platform.twitter.com/widgets.js" charset="utf-8"></script></p>
  157. <p>E invece non solo si è risvegliato ma ha anche – non appena riaperti gli occhi – trovato l’energia, grazie ai pannelli solari, per scattare una foto e inviare l’immagine a terra: la possiamo vedere nel tweet qui sopra. Quella che Slim si è appena lasciato alle spalle è la sua terza notte lunare, e per sincerarsi se davvero l’abbia superata indenne è ora in corso un’analisi delle sue condizioni e dell’inevitabile deterioramento dovuto all’alternarsi di condizioni diurne e notturne rigidissime. Comunque sia, per il Giappone – quinto paese al mondo, dopo Unione Sovietica, Stati Uniti, Cina e India, ad aver compiuto con successo un approdo <em>soft</em> sul nostro satellite – è già un successo al di là di ogni aspettativa.</p>
  158. ]]></content:encoded>
  159. </item>
  160. <item>
  161. <title>Grani di Ryugu analizzati con l’olografia elettronica</title>
  162. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/29/ryugu-frammenti-olografia-elettronica/</link>
  163. <dc:creator><![CDATA[Maura Sandri]]></dc:creator>
  164. <pubDate>Mon, 29 Apr 2024 15:10:10 +0000</pubDate>
  165. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
  166. <category><![CDATA[News]]></category>
  167. <category><![CDATA[Asteroide]]></category>
  168. <category><![CDATA[Framboidi]]></category>
  169. <category><![CDATA[Olografia]]></category>
  170. <category><![CDATA[Ryugu]]></category>
  171. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1753001</guid>
  172.  
  173. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/29/ryugu-frammenti-olografia-elettronica/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig1-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>L’analisi dei campioni dell’asteroide Ryugu ha permesso di rivelare nuovi e interessanti aspetti sul “bombardamento” fisico e magnetico a cui sono sottoposti gli asteroidi nello spazio interplanetario. Lo studio si è servito di una tecnica avanzata di imaging chiamata olografia elettronica, che ha rivelato i dettagli della struttura interna dei frammenti dell’asteroide e delle loro proprietà magnetiche ed elettriche]]></description>
  174. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/29/ryugu-frammenti-olografia-elettronica/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig1-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><div id="attachment_1753003" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig1.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1753003" class="size-medium wp-image-1753003" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig1-340x191.jpg" alt="" width="340" height="191" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig1-340x191.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig1-664x374.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig1-768x432.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig1-660x371.jpg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig1.jpg 1200w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1753003" class="wp-caption-text">Rappresentazione artistica dell&#8217;analisi del campione di Ryugu con l&#8217;olografia elettronica. Crediti: Yuki Kimura</p></div>
  175. <p>L&#8217;analisi dei campioni recuperati dall&#8217;asteroide <a href="https://www.media.inaf.it/tag/Ryugu/">Ryugu</a> dalla sonda <a href="https://www.media.inaf.it/tag/Hayabusa2/">Hayabusa2</a> dell&#8217;agenzia spaziale giapponese <a href="https://global.jaxa.jp/" target="_blank" rel="noopener">Jaxa</a> ha rivelato nuovi aspetti sul “bombardamento” fisico e magnetico a cui sono soggetti gli asteroidi nello spazio interplanetario. I risultati dello <a href="https://www.nature.com/articles/s41467-024-47798-0" target="_blank" rel="noopener">studio</a>, condotto da <strong>Yuki Kimura</strong> dell&#8217;Università di Hokkaido e da collaboratori di altre tredici istituzioni giapponesi, sono stati pubblicati oggi sulla rivista <em>Nature Communications</em>.</p>
  176. <p>Le indagini degli autori hanno utilizzato una tecnica avanzata di <em>imaging</em> chiamata <strong>olografia elettronica</strong>, o olografia con elettroni, che utilizza gli elettroni anziché la luce per creare immagini tridimensionali di oggetti microscopici. Nel processo, un fascio di elettroni penetra nel campione, rivelando i dettagli della loro struttura e delle loro proprietà magnetiche ed elettriche.</p>
  177. <p>Hayabusa2 <a href="https://www.media.inaf.it/2018/06/29/ryugu-fine-viaggio/">ha raggiunto l&#8217;asteroide Ryugu</a> il 27 giugno 2018, ha raccolto campioni durante due delicati <a href="https://www.media.inaf.it/2019/02/22/hayabusa2-touchdown-completato/"><em>touchdown</em></a> e ha poi <a href="https://www.media.inaf.it/2020/12/28/campioni-hayabusa2-change5/">riportato a Terra</a> i campioni nel dicembre 2020. Il veicolo spaziale sta ora proseguendo il suo viaggio nello spazio, con l&#8217;osservazione di altri due asteroidi, prevista nel 2029 e nel 2031.</p>
  178. <div id="attachment_1753005" style="width: 341px" class="wp-caption alignleft"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig2.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1753005" class="size-medium wp-image-1753005" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig2-340x170.jpg" alt="" width="340" height="170" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig2-340x170.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig2-664x331.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig2-768x383.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig2-1536x766.jpg 1536w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig2-660x329.jpg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig2.jpg 1654w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1753005" class="wp-caption-text">Particelle di magnetite (particelle rotonde) tagliate da un campione di Ryugu. (A) Immagine al microscopio elettronico a trasmissione in campo chiaro. (B) Immagine della distribuzione del flusso magnetico ottenuta con l&#8217;olografia elettronica. Le strisce circolari concentriche visibili all&#8217;interno delle particelle corrispondono a linee di forza magnetiche. Sono chiamate strutture di dominio magnetico a vortice e sono più stabili dei normali dischi rigidi, che possono registrare campi magnetici per oltre 4,6 miliardi di anni. Crediti: Yuki Kimura, et al. Nature Communications, 29 aprile 2024</p></div>
  179. <p>Un vantaggio della raccolta di campioni direttamente da un asteroide è che consente ai ricercatori di esaminare gli effetti a lungo termine della sua esposizione all&#8217;ambiente spaziale. Il <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Vento_solare" target="_blank" rel="noopener">vento solare</a> proveniente dal Sole e il bombardamento da parte dei <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Micrometeorite" target="_blank" rel="noopener">micrometeoriti</a> causano cambiamenti noti come <em>space weathering</em>. È impossibile studiare con precisione questi cambiamenti utilizzando la maggior parte dei campioni di meteoriti che atterrano sulla Terra, in parte a causa della loro provenienza dalle parti interne di un asteroide e anche per gli effetti causati dall’attrito delle rocce in atmosfera, durante la loro discesa.</p>
  180. <p>«Le firme degli agenti atmosferici spaziali che abbiamo rilevato direttamente ci permetteranno di comprendere meglio alcuni dei fenomeni che si verificano nel Sistema solare», spiega Kimura, puntualizzando che la forza del campo magnetico nel Sistema solare primordiale è diminuita con la formazione dei pianeti e la misurazione della magnetizzazione residua sugli asteroidi può rivelare informazioni sul campo magnetico nelle primissime fasi della formazione del Sistema solare. «In futuri lavori, i nostri risultati potrebbero anche aiutare a rivelare l&#8217;età relativa delle superfici sui corpi privi di aria e aiutare nell&#8217;interpretazione accurata dei dati di telerilevamento ottenuti da questi corpi», aggiunge.</p>
  181. <div id="attachment_1753006" style="width: 1891px" class="wp-caption alignnone"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig3.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1753006" class="size-full wp-image-1753006" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig3.jpg" alt="" width="1890" height="631" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig3.jpg 1890w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig3-340x114.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig3-664x222.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig3-768x256.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig3-1536x513.jpg 1536w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/P2405-Fig3-660x220.jpg 660w" sizes="(max-width: 1890px) 100vw, 1890px" /></a><p id="caption-attachment-1753006" class="wp-caption-text">Nanoparticelle di ferro distribuite intorno alla pseudo-magnetite. (A) Immagine in campo oscuro scattata con un microscopio elettronico a trasmissione a scansione. (B) Immagine corrispondente della distribuzione del ferro. Le frecce bianche indicano le nanoparticelle di ferro. (C) Immagine della distribuzione del flusso magnetico della regione centrale di A e B. Nella pseudo-magnetite non si vedono linee di campo magnetico, mentre all&#8217;interno delle particelle di ferro sono visibili strutture concentriche di dominio magnetico simili a vortici, come indicato dalle frecce nere. Crediti: Yuki Kimura, et al. Nature Communications, 29 aprile 2024</p></div>
  182. <p>Una scoperta particolarmente interessante è che i piccoli grani minerali chiamati <strong>framboidi</strong>, composti da magnetite, una forma di ossido di ferro, hanno perso completamente le loro normali proprietà magnetiche. I ricercatori suggeriscono che ciò sia dovuto alla collisione con micrometeoriti ad alta velocità di diametro compreso tra 2 e 20 micrometri. I framboidi rilevati erano circondati da migliaia di nanoparticelle di ferro metallico. Si spera che i futuri studi su queste nanoparticelle possano rivelare intuizioni sul campo magnetico che l&#8217;asteroide ha sperimentato per lunghi periodi di tempo. «Sebbene il nostro studio sia principalmente di interesse scientifico fondamentale e di comprensione, potrebbe anche aiutare a stimare il grado di degrado probabilmente causato dalla polvere spaziale che impatta ad alta velocità con veicoli spaziali robotici o con equipaggio», conclude fiducioso Kimura.</p>
  183. <p><strong>Per saperne di più:</strong></p>
  184. <ul>
  185. <li>Leggi su <em>Nature Communications</em> l’articolo “<a href="https://www.nature.com/articles/s41467-024-47798-0" target="_blank" rel="noopener">Nonmagnetic framboid and associated iron nanoparticles with a space-weathered feature from asteroid Ryugu</a>” di Yuki Kimura, Takeharu Kato, Satoshi Anada, Ryuji Yoshida, Kazuo Yamamoto, Toshiaki Tanigaki, Tetsuya Akashi, Hiroto Kasai, Kosuke Kurosawa, Tomoki Nakamura, Takaaki Noguchi, Masahiko Sato, Toru Matsumoto, Tomoyo Morita, Mizuha Kikuiri, Kana Amano, Eiichi Kagawa, Toru Yada, Masahiro Nishimura, Aiko Nakato, Akiko Miyazaki, Kasumi Yogata, Masanao Abe, Tatsuaki Okada, Tomohiro Usui, Makoto Yoshikawa, Takanao Saiki, Satoshi Tanaka, Fuyuto Terui, Satoru Nakazawa, Hisayoshi Yurimoto, Ryuji Okazaki, Hikaru Yabuta, Hiroshi Naraoka, Kanako Sakamoto, Sei-ichiro Watanabe, Yuichi Tsuda e Shogo Tachibana</li>
  186. </ul>
  187. <p>&nbsp;</p>
  188. ]]></content:encoded>
  189. </item>
  190. <item>
  191. <title>Einstein Probe spalanca gli occhi sul cielo X</title>
  192. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/27/prima-luce-einstein-probe/</link>
  193. <dc:creator><![CDATA[Redazione Media Inaf]]></dc:creator>
  194. <pubDate>Sat, 27 Apr 2024 10:27:34 +0000</pubDate>
  195. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
  196. <category><![CDATA[News]]></category>
  197. <category><![CDATA[Tecnologia e Innovazione]]></category>
  198. <category><![CDATA[CAS]]></category>
  199. <category><![CDATA[Cina]]></category>
  200. <category><![CDATA[Einstein Probe]]></category>
  201. <category><![CDATA[ESA]]></category>
  202. <category><![CDATA[GRB]]></category>
  203. <category><![CDATA[INAF]]></category>
  204. <category><![CDATA[Raggi X]]></category>
  205. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1752984</guid>
  206.  
  207. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/27/prima-luce-einstein-probe/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light-150x150.png" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>Presentate al 7° workshop del consorzio Einstein Probe, a Pechino, le prime immagini catturate dalla missione lanciata a inizio anno. Confermano le potenzialità del satellite e mostrano che le sue ottiche a “occhi d’aragosta” sono pronte a monitorare il cielo a raggi X. «Einstein Probe è la missione che ci vuole per catturare e studiare i transienti nel cielo X», dicono Luigi Piro e Giancarlo Ghirlanda dell’Inaf, “appointed scientists” per la partecipazione Esa alla missione]]></description>
  208. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/27/prima-luce-einstein-probe/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light-150x150.png" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><div id="attachment_1752987" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_artist_impression-scaled.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752987" class="size-medium wp-image-1752987" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_artist_impression-340x191.jpg" alt="" width="340" height="191" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_artist_impression-340x191.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_artist_impression-664x374.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_artist_impression-768x432.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_artist_impression-1536x864.jpg 1536w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_artist_impression-2048x1152.jpg 2048w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_artist_impression-660x371.jpg 660w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1752987" class="wp-caption-text">Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Einstein Probe. Crediti: Chinese Academy of Sciences</p></div>
  209. <p><a href="https://www.media.inaf.it/2024/01/10/einstein-probe-in-volo-per-fare-i-raggi-x-al-cosmo/">Lanciato il 9 gennaio 2024</a>, il telescopio spaziale <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Einstein_Probe">Einstein Probe</a> dell&#8217;Accademia cinese delle scienze (Cas) è andato ad affiancare Xmm-Newton dell&#8217;Esa e a Xrism della Jaxa nella ricerca rivolta all’universo in raggi X. Nei mesi successivi al decollo, il team operativo della missione – una collaborazione guidata dalla Cas e della quale fanno parte l’Esa, l’istituto tedesco Max Planck per la fisica extraterrestre (Mpe) e il Cnes francese – ha completato i test necessari per confermare la funzionalità del veicolo spaziale e calibrare gli strumenti scientifici. Durante questa fase cruciale, Einstein Probe ha acquisito dati scientifici da varie sorgenti di raggi X. Queste immagini – dette “di prima luce” – dimostrano le eccezionali capacità dei due strumenti scientifici a bordo della sonda: il Wide-field X-ray Telescope (Wxt), una sorta di “grandangolo” in grado di cogliere in un solo puntamento quasi un undicesimo dell’intera sfera celeste, e il più sensibile Follow-up X-ray Telescope (Fxt), il “teleobiettivo” della coppia, dedicato all’osservazione in dettaglio degli eventi di breve durata catturati dal Wxt.</p>
  210. <p>«Sono felice di vedere queste prime osservazioni di Einstein Probe, che dimostrano la capacità della missione di studiare ampie zone del cielo a raggi X e di scoprire rapidamente nuove sorgenti celesti», dice <strong>Carole Mundell</strong>, direttrice scientifica dell’Esa. «Questi primi dati ci mostrano uno scorcio affascinante dell’universo dinamico ad alta energia che presto sarà alla portata delle nostre comunità scientifiche. Congratulazioni ai team scientifici e ingegneristici della Cas, dell’Mpe, del Cnes e dell’Esa per il duro lavoro svolto per raggiungere questo importante traguardo».</p>
  211. <p>La capacità della missione di individuare prontamente nuove sorgenti di raggi X e di monitorare il loro cambiamento nel tempo è fondamentale per migliorare la nostra comprensione dei processi più energetici del cosmo. I raggi X, infatti, vengono prodotti e attraversano l’universo a seguito dello scontro fra stelle di neutroni, quando le supernove esplodono e quando la materia viene inghiottita dai buchi neri o espulsa dai campi magnetici che li avvolgono.</p>
  212. <p><strong>Occhi d’aragosta per tenere sotto controllo l’universo</strong></p>
  213. <p>Lo strumento Wxt di Einstein Probe è composto da dodici moduli basati sulle cosiddette <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Lobster-eye_optics">ottiche <em>lobster-eye</em></a> (a “<a href="https://www.media.inaf.it/2020/07/28/nanosat-lobster-eye/">occhi di aragosta</a>”), testata in volo nel 2022 dal dimostratore tecnologico <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Lobster_Eye_Imager_for_Astronomy">Leia</a> (Lobster Eye Imager for Astronomy). I dodici moduli forniscono un campo visivo di oltre 3600 gradi quadrati, consentendo a Einstein Probe di monitorare l’intero cielo in sole tre orbite. La modalità di funzionamento delle ottiche a occhi di aragosta fa sì che i rilevamenti di oggetti altamente energetici assumano il caratteristico aspetto di un segno ‘più’ luminoso (vedi immagine qui sotto).</p>
  214. <div id="attachment_1752986" style="width: 3793px" class="wp-caption alignnone"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light.png"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752986" class="size-full wp-image-1752986" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light.png" alt="" width="3792" height="2084" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light.png 3792w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light-340x187.png 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light-664x365.png 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light-768x422.png 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light-1536x844.png 1536w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light-2048x1126.png 2048w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Einstein_Probe_s_wide_eyes_capture_the_Milky_Way_in_X-ray_light-660x363.png 660w" sizes="(max-width: 3792px) 100vw, 3792px" /></a><p id="caption-attachment-1752986" class="wp-caption-text">Immagine della Via Lattea in raggi X acquisita dallo strumento Wide-field X-ray Telescope (Wxt) di Einstein Probe durante la campagna di calibrazione. Spiccano una ventina di croci violacee: sono i caratteristici segni a forma di ‘più’ e hanno al centro un punto brillante. Crediti: Epsc, Nao/Cas; Dss; Eso</p></div>
  215. <p>Wxt ha intrapreso la sua missione di sorveglianza del cielo a raggi X già durante i primi mesi di permanenza nello spazio. La prima sorgente X transiente, vale a dire un oggetto astronomico che non brilla continuamente ma che appare e scompare, è stata rilevata da Einstein Probe il 19 febbraio: si trattava di un candidato <em>gamma-ray burst</em> (<a href="https://www.media.inaf.it/tag/grb/">Grb</a>) durato 100 secondi. Successivamente, Einstein Probe ha scoperto altre 14 sorgenti temporanee di raggi X e ha rilevato i raggi X dovuti ai brillamenti di 127 stelle.</p>
  216. <p>Nel corso della missione, le rilevazioni dello strumento ad ampio campo saranno utilizzate per allertare numerosi telescopi a terra e nello spazio al fine di eseguire osservazioni di <em>follow-up</em> in diverse bande dello spettro elettromagnetico. Relativamente alla banda X, le osservazioni di <em>follow-up</em> possono essere fatte anche direttamente dallo strumento Fxt a bordo del satellite.</p>
  217. <div id="attachment_1752993" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Supernova_remnant_Puppis_A_imaged_by_Einstein_Probe.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752993" class="size-medium wp-image-1752993" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Supernova_remnant_Puppis_A_imaged_by_Einstein_Probe-340x340.jpg" alt="" width="340" height="340" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Supernova_remnant_Puppis_A_imaged_by_Einstein_Probe-340x340.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Supernova_remnant_Puppis_A_imaged_by_Einstein_Probe-664x664.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Supernova_remnant_Puppis_A_imaged_by_Einstein_Probe-150x150.jpg 150w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Supernova_remnant_Puppis_A_imaged_by_Einstein_Probe-768x768.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Supernova_remnant_Puppis_A_imaged_by_Einstein_Probe-660x660.jpg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Supernova_remnant_Puppis_A_imaged_by_Einstein_Probe.jpg 1080w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1752993" class="wp-caption-text">Il resto di supernova Puppis A immortalato da Einstein Proble. Crediti: Chinese Academy of Sciences</p></div>
  218. <p><strong>Osservazioni rapide di <em>follow-up</em> </strong></p>
  219. <p>Lo strumento Fxt di Einstein Probe dispone di due telescopi a raggi X per studi dettagliati di oggetti ed eventi che emettono in questa banda dello spettro. Negli ultimi mesi, Fxt ha dimostrato di essere uno strumento affidabile per osservare vari tipi di sorgenti di raggi X. Le prime immagini che ha acquisito sono quelle di un resto di supernova, di una galassia ellittica, di un ammasso globulare e di una nebulosa.</p>
  220. <p>Fxt è inoltre già riuscito, con un certo stupore da parte dei responsabili della missione, a compiere un&#8217;osservazione di <em>follow-up </em>di un evento a raggi X rilevato da Wxt il 20 marzo 2024. «È sorprendente che, pur con gli strumenti non ancora del tutto calibrati, siamo già riusciti a eseguire, utilizzando lo strumento Fxt, un’osservazione di <em>follow-up</em> – critica dal punto di vista temporale – di un transiente veloce ai raggi X individuato per la prima volta da Wxt», dice <strong>Erik Kuulkers</strong>, <em>project scientist</em> Esa di Einstein Probe. «È una dimostrazione di ciò che Einstein Probe sarà in grado di fare durante la sua survey».</p>
  221. <p><strong>Avvio della campagna scientifica</strong></p>
  222. <p>Nei prossimi mesi, la Einstein Probe continuerà a svolgere le attività di calibrazione in orbita, per poi dare inizio, verso la metà di giugno, alle osservazioni scientifiche di routine. Durante i tre anni di durata prevista della missione, il satellite orbiterà intorno alla Terra a 600 km di altezza mantenendo gli occhi ben puntati sul cielo alla ricerca di eventi transienti a raggi X. E grazie al telescopio di <em>follow-up</em> Fxt studierà in dettaglio sia gli eventi di nuova rilevazione sia altri oggetti interessanti già noti.</p>
  223. <p>«Einstein Probe è la missione giusta al momento giusto. Con i grandi satelliti per raggi X Chandra e Xmm con ciascuno più di vent’anni sulle spalle, eRosita in standby per la guerra in Ucraina e NewAthena previsto nel 2037, a breve e medio termine tocca proprio a Einstein Probe permetterci di catturare e studiare i transienti nel cielo X», concludono <strong>Luigi Piro</strong> e <strong>Giancarlo Ghirlanda</strong> dell’Istituto nazionale di astrofisica, entrambi fra gli scienziati selezionati dall’Esa per la partecipazione a Einstein Probe. «La sua strumentazione permette infatti di rivelare, localizzare e poi seguire l’emissione X di transienti, fra cui le controparti di onde gravitazionali e i <em>gamma ray burst</em> nell’universo primordiale».</p>
  224. <p><em>Fonte: <a href="https://www.esa.int/Science_Exploration/Space_Science/Einstein_Probe_opens_its_wide_eyes_to_the_X-ray_sky" target="_blank" rel="noopener">press release Esa</a></em></p>
  225. <p><strong>Guarda su <em>MediaInaf Tv</em> un servizio video di gennaio 2024 su Einstein Probe:</strong></p>
  226. <p><iframe loading="lazy" title="Einstein Probe, missione astrofisica in raggi X sino-europea" width="665" height="374" src="https://www.youtube.com/embed/shcyiYuakuw?feature=oembed" frameborder="0" allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture; web-share" referrerpolicy="strict-origin-when-cross-origin" allowfullscreen></iframe></p>
  227. <p>&nbsp;</p>
  228. ]]></content:encoded>
  229. </item>
  230. <item>
  231. <title>Sotto il cielo dell’eclissi</title>
  232. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/26/eclissi-usa-progetto-astra/</link>
  233. <dc:creator><![CDATA[Albino Carbognani]]></dc:creator>
  234. <pubDate>Fri, 26 Apr 2024 16:19:10 +0000</pubDate>
  235. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
  236. <category><![CDATA[News]]></category>
  237. <category><![CDATA[Tecnologia e Innovazione]]></category>
  238. <category><![CDATA[cometa 12p/Pons-Brooks]]></category>
  239. <category><![CDATA[Eclissi 2024]]></category>
  240. <category><![CDATA[Falci volanti]]></category>
  241. <category><![CDATA[INAF]]></category>
  242. <category><![CDATA[OAS Bologna]]></category>
  243. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1752807</guid>
  244.  
  245. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/26/eclissi-usa-progetto-astra/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Anello_diamante_20240408_184030UTC-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>L'eclissi totale di Sole dell'8 aprile 2024 era una buona occasione per riprendere tutti i pianeti del Sistema solare su un unico frame. Inoltre in cielo c'era anche la cometa 12P/Pons-Brooks, prossima al perielio. A Burleson, in Texas, abbiamo avuto la possibilità di usare una delle camere grandangolari del progetto Astra, sviluppato all’Inaf di Bologna. Ecco com'è andata]]></description>
  246. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/26/eclissi-usa-progetto-astra/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Anello_diamante_20240408_184030UTC-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><p>L&#8217;ultimo &#8220;spettacolo celeste&#8221; che ha ricevuto una forte attenzione mediatica è stata sicuramente l&#8217;<a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Eclissi_solare_dell%278_aprile_2024" target="_blank" rel="noopener">eclissi totale di Sole dell&#8217;8 aprile 2024</a>, osservabile da Messico, Stati Uniti e Canada. Come inviato di <em>Media Inaf</em>, <a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/04/inaf-eclissi-solare-totale/" target="_blank" rel="noopener">ho seguito l&#8217;eclissi</a> da <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Burleson,_Texas" target="_blank" rel="noopener">Burleson</a>, in Texas: una cittadina di circa 50mila abitanti posta nei sobborghi della città di Fort Worth (vicinissima alla più nota Dallas), posta in favorevole posizione all’interno della striscia di visibilità totale dell’evento e con una probabilità di cielo sereno del 50 per cento. Gli obiettivi della missione erano ovviamente la documentazione dell’intero evento celeste, con l’osservazione del disco solare, della <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Cromosfera" target="_blank" rel="noopener">cromosfera</a>, delle <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Protuberanza_solare" target="_blank" rel="noopener">protuberanze</a> e della <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Corona_solare" target="_blank" rel="noopener">corona</a> e l’osservazione dell’eventuale fenomeno di natura atmosferica delle <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Ombre_volanti" target="_blank" rel="noopener">ombre volanti</a>, che a volte si manifesta durante le eclissi. L’occasione è stata anche propizia per un ulteriore (e inusuale) esperimento per immortalare l’intero gruppo di pianeti del Sistema solare su una stessa immagine panoramica <em>deep sky</em> nel corso dell’eclissi, senza dimenticare la cometa <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/12P/Pons-Brooks" target="_blank" rel="noopener">12P/Pons-Brooks</a>, che sarebbe passata al perielio solo qualche giorno dopo, il 21 aprile.</p>
  247. <div id="attachment_1752808" style="width: 1141px" class="wp-caption alignnone"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Anello_diamante_20240408_184030UTC.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752808" class="wp-image-1752808 size-full" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Anello_diamante_20240408_184030UTC.jpg" alt="" width="1140" height="870" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Anello_diamante_20240408_184030UTC.jpg 1140w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Anello_diamante_20240408_184030UTC-340x259.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Anello_diamante_20240408_184030UTC-664x507.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Anello_diamante_20240408_184030UTC-768x586.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Anello_diamante_20240408_184030UTC-660x504.jpg 660w" sizes="(max-width: 1140px) 100vw, 1140px" /></a><p id="caption-attachment-1752808" class="wp-caption-text">Un primo piano del disco nero della Luna che copre il Sole mostrando solo la cromosfera solare e le protuberanze al bordo pochi secondi dopo il secondo contatto con l&#8217;effetto &#8220;anello di diamante&#8221;. Crediti: A. Carbognani/Inaf</p></div>
  248. <p>Le osservazioni del disco solare sono state condotte con una fotocamera con filtro <em>Uv-Ir cut</em>, modificato in modo tale da trasmettere anche la luce in emissione della <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/H-alfa" target="_blank" rel="noopener">righa H-alfa dell&#8217;idrogeno</a>, nella banda rossa dello spettro, dotata di un teleobiettivo da 300 mm F/11. Per evitare di avere immagini mosse durante le riprese a lunga posa della corona, la fotocamera è stata montata su un astroinseguitore per compensare la rotazione terrestre.</p>
  249. <p>La foto panoramica del Sistema solare è stata invece l’occasione ghiotta per mettere alla prova le camere del nuovo <strong>progetto Astra</strong>, <a href="https://www.oas.inaf.it/it/ricerca/m3-it/progetto-sst/" target="_blank" rel="noopener">sviluppato all’Inaf Oas Bologna</a> nell’ambito dell’accordo attuativo Inaf-Asi per la sorveglianza spaziale e tracking (Sst) dei satelliti artificiali e dei detriti spaziali.</p>
  250. <p>«Con molto piacere abbiamo preso l’occasione per questo esperimento così particolare e, per certi aspetti, unico», spiega <strong>Alberto Buzzoni</strong> dell’Inaf di Bologna, coordinatore del progetto, «equipaggiando la spedizione americana di <em>Media Inaf</em> con una delle cinque camere grandangolari, in uso alle stazioni Astra del network nazionale. Si tratta di obiettivi grandangolari Zeiss-Voigtlander Nokton di 21 mm F/1,4, di alte prestazioni, accoppiati a camere <em>full format</em> Sony α A7 III, in grado di fornire immagini di 24 megapixel su campi celesti molto estesi, fino a 80 x 60 gradi. In ambito Sst, questo ci permette, ad esempio, di rilevare oggetti inferiori al mezzo metro in orbita terrestre bassa o di pattugliare la fascia orbitale geostazionaria, a 35mila km dalla Terra, fino alla magnitudine 13».</p>
  251. <div id="attachment_1752931" style="width: 2001px" class="wp-caption alignnone"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Eclipse_sky_with_planets_and_comet_Pons_Brooks_20240408_small-1.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752931" class="wp-image-1752931 size-full" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Eclipse_sky_with_planets_and_comet_Pons_Brooks_20240408_small-1.jpg" alt="" width="2000" height="1056" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Eclipse_sky_with_planets_and_comet_Pons_Brooks_20240408_small-1.jpg 2000w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Eclipse_sky_with_planets_and_comet_Pons_Brooks_20240408_small-1-340x180.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Eclipse_sky_with_planets_and_comet_Pons_Brooks_20240408_small-1-664x351.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Eclipse_sky_with_planets_and_comet_Pons_Brooks_20240408_small-1-768x406.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Eclipse_sky_with_planets_and_comet_Pons_Brooks_20240408_small-1-1536x811.jpg 1536w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Eclipse_sky_with_planets_and_comet_Pons_Brooks_20240408_small-1-660x348.jpg 660w" sizes="(max-width: 2000px) 100vw, 2000px" /></a><p id="caption-attachment-1752931" class="wp-caption-text">Veduta panoramica del cielo durante la fase di totalità dell&#8217;eclissi ottenuta con la camera del progetto Astra (cliccare per ingrandire). L’immagine sottende un campo di vista di 80 x 60 gradi ed è la somma di 50 frames, ciascuno con esposizione di 0,8 s e sensibilità di 200 Iso. Per rendere più evidenti le stelle alla vista, all&#8217;immagine finale è stato applicato un filtro unsharp mask. Il globo biancastro al centro è la corona solare da cui si dipartono i pennacchi coronali. Sono visibili i pianeti Urano, Giove, Mercurio, Venere e la cometa 12P/Pons-Brooks. In prossimità di Venere e a destra nell&#8217;immagine sono visibili dei veli di nubi biancastri. Crediti A: Carbognani/Astra/Inaf</p></div>
  252. <p>L&#8217;alba dell&#8217;8 aprile a Burleson è stata spettacolare: in cielo erano presenti dei veli, ma tutto sommato era abbastanza sereno e senza vento, condizioni favorevoli all&#8217;osservazione. Il momento di grazia è durato poco: subito dopo il cielo ha iniziato ad annuvolarsi con nubi provenienti da sud-ovest ed è rimasto tale fino a circa un&#8217;ora dal primo contatto. Nonostante il cielo nuvoloso è stato allestito il campo di osservazione, con i due <em>setup</em> di ripresa posti uno di fianco all&#8217;altro. Per fortuna le nubi hanno iniziato a diradarsi rapidamente e l&#8217;eclissi totale di Sole è stata uno <strong>spettacolo indescrivibile</strong> <strong>a parole</strong>: durante la totalità erano ben visibili in cielo <strong>Venere</strong> (circa 15° in basso a destra rispetto al Sole) e <strong>Giove</strong> (in alto a sinistra a circa 30° di distanza), ma il cielo è rimasto sempre chiaro, come 25-30 minuti dopo il tramonto. Non era visibile a occhio nudo Mercurio perché di magnitudine +4 a circa 6° di distanza dal Sole. Spettacolare la <strong>corona solare</strong>, visibile a occhio nudo come un <strong>anello molto luminoso</strong> attorno al disco nero della Luna.</p>
  253. <p>Visibili anche diverse protuberanze al bordo solare, di un bel colore rosso vivo tipico della riga H-alfa dell&#8217;idrogeno a 656,3 nm di lunghezza d&#8217;onda. Non sono state viste le classiche “ombre volanti” (<a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Shadow_bands">shadow bands</a>), ma le &#8220;<strong>falci volanti</strong>&#8221; sì: da alcuni minuti prima del secondo contatto a diversi minuti dopo il terzo contatto, sul lenzuolo bianco steso al suolo che doveva funzionare come &#8220;detector&#8221; delle ombre volanti, si muovevano rapidamente delle <strong>piccole falci d&#8217;ombra</strong> che si dissolvevano e riformavano in continuazione. Di questo fenomeno è stato ripreso un video (qui sotto) che lo documenta chiaramente, anche se &#8220;le falci&#8221; non sono percepibili in modo univoco nei singoli frame per via del basso contrasto.</p>
  254. <div style="width: 665px;" class="wp-video"><!--[if lt IE 9]><script>document.createElement('video');</script><![endif]-->
  255. <video class="wp-video-shortcode" id="video-1752807-1" width="665" height="374" preload="metadata" controls="controls"><source type="video/mp4" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/video-falci-volanti-1.mp4?_=1" /><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/video-falci-volanti-1.mp4">https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/video-falci-volanti-1.mp4</a></video></div>
  256. <p>Mentre venivano riprese le immagini del disco solare con il teleobiettivo, con la camera grandangolare Astra è stata ripresa una sequenza di 93 immagini con tempi di posa di 0,8 s e sensibilità di 200 Iso. Il <em>setup</em> era stato deciso in base ai test condotti nelle settimane precedenti, con la ripresa del cielo del crepuscolo usando la stessa camera. Con il senno di poi il tempo di posa si è rivelato un po&#8217; troppo elevato rispetto alla luminosità di fondo cielo. Comunque, mediando 50 delle migliori immagini e correggendo per la vignettatura del campo di vista, la <strong>magnitudine stellare raggiunta è stata la +7,3</strong>. Nell&#8217;immagine a grande campo sono ben visibili i pianeti Urano, Giove, Mercurio e Venere. Purtroppo Nettuno, Saturno e Marte erano dietro a un banco di nubi, anche se Nettuno sarebbe stato comunque troppo debole per essere rilevato. La chioma verde della cometa <a href="https://asteroidiedintorni.blog/2024/03/12/osserviamo-la-cometa-pons-brooks/">12P/Pons-Brooks</a> è stata rilevata facilmente, anche se la coda è al limite della detezione per via di sottili veli di nubi che erano comunque presenti in cielo. La corona solare risulta estesa per 10°-15° oltre il bordo solare e sono visibili le estreme propaggini dei pennacchi coronali. Oltre alla 12P, molto prossima al Sole c&#8217;era la cometa <em>sungrazer</em> <a href="https://apod.nasa.gov/apod/ap240417.html">Soho-5008</a>, disintegratasi poche ore dopo l&#8217;eclissi. Purtroppo nell&#8217;immagine a grande campo è affogata all&#8217;interno della corona solare e nelle immagini riprese con il teleobiettivo è appena al di fuori del campo di vista.</p>
  257. <p>Tirando le somme, si può dire che è stata un&#8217;esperienza unica, un ottimo preludio all&#8217;<a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Eclissi_solare_del_2_agosto_2027" target="_blank" rel="noopener">eclissi totale di Sole del 2 agosto 2027</a> – in Egitto, 60 km a sud-est di Luxor – che, con la sua durata record di ben 6 minuti e 23 secondi,  permetterà di tentare osservazioni ancora più interessanti usando telescopi con un moderato campo di vista, come quella degli asteroidi <a href="https://www.media.inaf.it/2022/07/22/asteroidi-vulcanoidi-controluce/">vulcanoidi</a>.</p>
  258. <p>&nbsp;</p>
  259. ]]></content:encoded>
  260. <enclosure url="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/video-falci-volanti-1.mp4" length="68583863" type="video/mp4" />
  261.  
  262. </item>
  263. <item>
  264. <title>Scorciatoie spaziali con la teoria dei nodi</title>
  265. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/26/scorciatoie-spaziali-teoria-nodi/</link>
  266. <dc:creator><![CDATA[Giuseppe Fiasconaro]]></dc:creator>
  267. <pubDate>Fri, 26 Apr 2024 15:53:02 +0000</pubDate>
  268. <category><![CDATA[News]]></category>
  269. <category><![CDATA[Spazio]]></category>
  270. <category><![CDATA[Tecnologia e Innovazione]]></category>
  271. <category><![CDATA[Italiani all'estero]]></category>
  272. <category><![CDATA[missioni spaziali]]></category>
  273. <category><![CDATA[problema dei tre corpi]]></category>
  274. <category><![CDATA[teoria dei nodi]]></category>
  275. <category><![CDATA[traiettorie dei satelliti]]></category>
  276. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1752939</guid>
  277.  
  278. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/26/scorciatoie-spaziali-teoria-nodi/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Preview-Media-Inaf-3-150x150.png" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>Per spostarsi tra due orbite utilizzando la minor quantità di carburante possibile occorre scegliere il percorso migliore. Due scienziati dell’Università del Surrey hanno sviluppato un nuovo metodo per trovare questi percorsi. «Tutte le missioni spaziali che vengono concepite cercando di sfruttare la caoticità del problema dei tre corpi per ridurre il consumo di carburante possono beneficiare del nostro approccio», dice a Media Inaf Nicola Baresi, uno dei due autori dello studio]]></description>
  279. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/26/scorciatoie-spaziali-teoria-nodi/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Preview-Media-Inaf-3-150x150.png" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><p>Per un veicolo spaziale gli spostamenti da un&#8217;orbita a un’altra sono cruciali per raggiungere la propria destinazione finale, siano essi trasferimenti tra orbite di uno stesso corpo celeste o tra orbite di corpi differenti. In questo senso, individuare percorsi che consentano di ridurre lo spreco di carburante è fondamentale. È fondamentale per massimizzare l&#8217;efficienza e ridurre i costi della missione. Ed è fondamentale anche per estenderne la durata e mitigare i rischi, contribuendo complessivamente al successo e alla sostenibilità della missione stessa. Due scienziati dell&#8217;<a href="https://www.surrey.ac.uk/">Università del Surrey</a>, nel Regno Unito, hanno ora sviluppato un nuovo metodo che permette facilmente di trovare traiettorie di trasferimento tra orbite all&#8217;interno di sistemi dinamici, come ad esempio il sistema Terra-Luna, senza spreco di carburante.</p>
  280. <div id="attachment_1752946" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Cassini-orbits-500x375-1.webp"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752946" class="wp-image-1752946 size-medium" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Cassini-orbits-500x375-1-340x255.webp" alt="" width="340" height="255" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Cassini-orbits-500x375-1-340x255.webp 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Cassini-orbits-500x375-1.webp 500w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1752946" class="wp-caption-text">Una rappresentazione generata al computer di tutte le orbite compiute dalla sonda Cassini su Saturno dal primo luglio 2014, il giorno dell&#8217;inserzione nell&#8217;orbita del pianeta,  fino 15 settembre 2015, il giorno del “Gran finale”. L&#8217;insieme di tutte le orbite è chiamato dai pianificatori della missione &#8220;ball of yarn&#8221;, ovvero gomitolo. Crediti: Nasa</p></div>
  281. <p>Il problema che bisogna affrontare quando una navicella si sposta tra due orbite in un sistema dinamico è conosciuto come &#8220;<a href="https://www.treccani.it/enciclopedia/problema-ristretto-dei-tre-corpi_(Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica)/">problema circolare ristretto dei tre corpi</a>&#8220;. Noto anche con l’acronimo <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Three-body_problem#Restricted_three-body_problem" target="_blank" rel="noopener">Crtbp</a>, da <em>circular restricted three bodies problem</em>, il modello descrive il moto di un corpo di massa trascurabile (la navicella spaziale) sotto l’azione gravitazionale simultanea di due corpi di massa maggiore (la Terra e la Luna nel sistema Terra-Luna). In un sistema così composto, ci sono punti di equilibrio del moto, detti <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Punti_di_Lagrange">punti di Lagrange</a>, intorno ai quali esistono diverse famiglie di orbite, a ciascuna delle quali sono associate una sorta di “autostrade” che permettono il trasferimento del veicolo spaziale da un’orbita ad un’altra. Ma quali di queste orbite sono le più vantaggiose in termini di risparmio di propellente?</p>
  282. <p>I metodi oggi utilizzati per individuare queste traiettorie – le cosiddette <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Orbita_eteroclina" target="_blank" rel="noopener">orbite eterocline</a> – prevedono, oltre all’uso delle leggi della meccanica celeste, l’applicazione di algoritmi di <em>machine learning</em>, l’analisi delle perturbazioni orbitali, simulazioni e complessi calcoli computazionali. Il nuovo metodo, descritto in dettaglio in uno <a href="https://link.springer.com/article/10.1007/s42064-024-0201-0">studio</a> pubblicato questo mese sulla rivista <em>Astrodynamics</em>, utilizza anch’esso la matematica per rivelare i percorsi migliori per spostarsi da un’orbita all’altra, ma senza fare ricorso a reti neurali artificiali e dunque senza la necessità di utilizzare calcolo ad alte prestazioni. Sviluppata presso il <a href="https://www.surrey.ac.uk/surrey-space-centre">Surrey Space Center</a> (Regno Unito), la nuova tecnica sfrutta la <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_dei_nodi">teoria dei nodi</a>, grazie alla quale è possibile rilevare rapidamente traiettorie approssimative, che possono poi essere perfezionate.</p>
  283. <p>Come anticipato, gli autori dello studio sono due: lo studente di dottorato all’Università del Surrey <strong>Danny Owen</strong> e lo scienziato italiano <strong>Nicola Baresi</strong>. Laureato in Fisica presso l’Università degli studi di Padova, dopo una parentesi in Israele, dove ha lavorato come ricercatore post-laurea per l’Istituto israeliano di tecnologia, nel 2013 Baresi si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha continuato gli studi prima con una borsa di studio Fulbright Usa-Italia e successivamente con un dottorato di ricerca sul volo in formazione di veicoli spaziali e sulla teoria dei sistemi dinamici. Ha lavorato per la Jaxa, collaborando a missioni di piccola e larga scala sulla Luna e su Marte, e oggi è docente di meccanica celeste al Surrey Space Center. Lo abbiamo intervistato.</p>
  284. <p><strong>Nel vostro articolo si parla di progettazione di missioni spaziali e in particolare di ricerca delle cosiddette connessioni eterocline. Che cosa sono, esattamente? E perché è utile mapparle?</strong></p>
  285. <p>«Le connessioni eterocline sono delle traiettorie molto particolari nello <a href="https://www.treccani.it/enciclopedia/spazio-delle-fasi_%28Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica%29/#:~:text=Spazio%20astratto%20in%20cui%20%C3%A8,lo%20stato%20fisico%20del%20sistema.">spazio delle fasi</a> che collegano due orbite differenti. Le traiettorie devono possedere un livello energetico simile e devono essere instabili. Ciò avviene per molte famiglie di orbite periodiche in modelli dinamici caotici che vengono utilizzati per il disegno di traiettorie di satelliti soggetti all’attrazione gravitazionale esercitata da due corpi celesti. Si pensi per esempio al caso di un satellite spaziale in viaggio verso la Luna, oppure di un telescopio spaziale come <a href="https://www.media.inaf.it/tag/jwst/">Jwst</a>, la cui orbita è stata appositamente selezionata cercando di sfruttare al meglio l’attrazione gravitazionale simultanea della Terra e del Sole per minimizzare il consumo di propellente. Il vantaggio di mappare le connessioni eterocline tra due traiettorie instabili consente di ampliare le opzioni per il disegno di missioni spaziali, oppure di manovrare satelliti da un orbita instabile ad un’altra senza il consumo di carburante. Il paragone che faccio spesso ai miei studenti è quello di un’imbarcazione che si lascia trasportare dalle correnti oceaniche per spostarsi da un continente all’altro senza dover ricorrere all’uso dei motori».</p>
  286. <div id="attachment_1752950" style="width: 341px" class="wp-caption alignleft"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Nicola_Photo1.png"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752950" class="wp-image-1752950 size-medium" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Nicola_Photo1-340x244.png" alt="" width="340" height="244" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Nicola_Photo1-340x244.png 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Nicola_Photo1-664x477.png 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Nicola_Photo1-768x551.png 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Nicola_Photo1-660x474.png 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Nicola_Photo1.png 1396w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1752950" class="wp-caption-text">Nicola Baresi, docente di meccanica orbitale all&#8217;Università del Surrey e co-autore dello studio pubblicato su <em>Astrodynamics</em></p></div>
  287. <p><strong>Per trovare queste “autostrade” spaziali, come modello dinamico per lo studio del moto dei veicoli utilizzate il “problema circolare ristretto dei tre corpi”. Ci spieghi meglio.</strong></p>
  288. <p>«Il problema dei tre corpi viene ampiamente utilizzato per il disegno di traiettorie di satelliti soggetti all’attrazione gravitazionale esercitata da due corpi celesti. Il problema è da sempre un cruccio della comunità scientifica sin dai tempi di Newton e dalle origini della teoria gravitazionale. Per secoli sono stati fatti tentativi di raggiungere una soluzione analitica del problema che potesse spiegare il moto della Luna causato dalla sua interazione gravitazionale con la Terra ed il Sole. Ciò aveva delle ramificazioni molto importanti per la navigazione a mare e a terra quando ancora non si poteva beneficiare di orologi accurati o dei moderni sistemi a Gps. Verso la fine del 19esimo secolo, il re Oscar II di Svezia si spinse fino a organizzare una competizione internazionale che potesse finalmente trovare una soluzione analitica al problema. La teoria che fu accreditata della vittoria è dovuta al grande matematico <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Henri_Poincar%C3%A9">Jules Henri Poincaré</a>, il quale dimostrò che il problema dei tre corpi non può di fatto essere risolto analiticamente. Così facendo, Poincaré ebbe il merito di spostare l’attenzione della ricerca su soluzioni particolari che potessero se non altro aiutare a capire la dinamica del problema in alcune zone peculiari dello spazio delle fasi. Nacque così la teoria dei sistemi dinamici che a oggi viene impiegata per trovare i cosiddetti punti lagrangiani e le famiglie di orbite periodiche utilizzate per le missioni spaziali interplanetarie e non. Secondo i progetti recenti della Nasa, il futuro dell’esplorazione umana dello spazio passerà da una nuova stazione spaziale che verrà inserita in una traiettoria quasi-periodica nei pressi della superficie lunare. L’“orbita” in questione non rispetta le <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_di_Keplero">leggi di Keplero</a> proprio perché frutto dell’interazione gravitazionale del satellite, denominato <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Lunar_Gateway">Lunar Orbital Platform Gateway</a>, sia con la Luna che con la Terra».</p>
  289. <p><strong>Qual è il nesso che lega questo modello alle connessioni eterocline?</strong></p>
  290. <p>«Seguendo la rotta tracciata da Poincaré agli inizi del secolo scorso, ricercatori da tutto il mondo hanno continuato a ricercare soluzioni particolari del problema dei tre corpi sempre più complesse e che possano aiutarci a raggiungere una comprensione superiore del problema caotico. L’avvento del computer e del calcolo scientifico ha portato enormi benefici al settore, inclusa la possibilità di calcolare non solo intere famiglie di orbite periodiche (orbite che si ripetono dopo un certo periodo), ma anche di orbite quasi-periodiche, ovvero di orbite che non si ripetono esattamente, ma che finiscono col ricoprire una superficie topologicamente equivalente a quella di una ciambella. Come per le orbite periodiche, anche le orbite quasi-periodiche possono essere instabili e avere connessioni eterocline che permettono a un satellite di passare da una traiettoria nei pressi di un punto lagrangiano a un’altra in un punto lagrangiano diverso nello spazio delle fasi. Il vantaggio è che, essendo varietà di dimensione maggiore rispetto alle orbite periodiche, le connessioni eterocline per le orbite quasi-periodiche sono molto più frequenti e quindi più opportune per il disegno di traiettorie satellitari».</p>
  291. <div id="attachment_1752949" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Screenshot-2024-04-26-120408.png"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752949" class="wp-image-1752949 size-medium" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Screenshot-2024-04-26-120408-340x187.png" alt="" width="340" height="187" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Screenshot-2024-04-26-120408-340x187.png 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Screenshot-2024-04-26-120408-664x365.png 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Screenshot-2024-04-26-120408-768x423.png 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Screenshot-2024-04-26-120408-660x363.png 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Screenshot-2024-04-26-120408.png 1330w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1752949" class="wp-caption-text">Connessioni eterocline tra orbite quasi-halo nel sistema Terra-Luna (cliccare per ingrandire). Crediti: Danny Owen e Nicola Baresi, Astodynamics, 2024</p></div>
  292. <p><strong>Può farci un esempio?</strong></p>
  293. <p>«Immaginate di dover trovare un punto di sovrapposizione tra due rette o due piani in uno spazio tri-dimensionale. Nel primo caso, simile a quello delle orbite periodiche, la sovrapposizione tra due rette avviene solo in casi molto rari ed isolati. Nel secondo caso invece, a meno che i due piani siano perfettamente paralleli, è possibile trovare un’intera retta di punti per i quali è possibile spostarsi da un piano all’altro».</p>
  294. <p><strong>Andiamo adesso al nuovo metodo che avete sviluppato per individuare le migliori traiettorie di trasferimento tra orbite. Per rilevare questi percorsi, la tecnica che avete messo a punto sfrutta la &#8220;teoria dei nodi&#8221;. Di che teoria si tratta? E che risultati avete ottenuto? </strong></p>
  295. <p>«Assieme al mio studente di dottorato, Danny Owen, dell’Università del Surrey, abbiamo realizzato che, volendo cercare connessioni eterocline su un piano particolare dello spazio delle fasi, possiamo ricondurci a una situazione in cui le traiettorie provenienti da un’orbita quasi-periodica e quelle destinate a raggiungere una seconda orbita quasi-periodica ottenuta attorno a un punto lagrangiano differente possono essere raffigurate come due superfici in uno spazio quattro-dimensionale. Selezionando una delle quattro coordinate come ‘variabile di scansionamento’, possiamo visualizzare le rimanenti tre coordinate come curve chiuse in uno spazio tri-dimensionale. Qui entra in gioco la teoria dei nodi e in particolare il cosidetto <a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Linking_number"><em>linking-number</em></a>, ovvero il numero di volte che una curva si intreccia attorno all’altra. Variando la variabile di scansionamento, monitoriamo come il <em>linking-number</em> delle possibili connessioni eterocline varia lungo tutto il dominio delle possibili sovrapposizioni. Due curve disgiunte hanno un <em>linking-number</em> uguale a zero, mentre due anelli di una catena hanno un <em>linking-number</em> uguale a +1 oppure a -1, a seconda di come gli anelli vengono incastrati. Il punto è che per passare da zero a +1 o -1 dev’esserci per forza un valore della variabile di scansionamento nel quale le due curve si sovrappongono. Tali punti sono per forza di cose connessioni eterocline, che permettono ad un satellite di viaggiare dall’orbita quasi-periodica di partenza all’orbita quasi-periodica di arrivo senza dover ricorrere a manovre che richiedono l’uso di propellente. Così facendo abbiamo identificato un metodo che permette di mappare tutte le possibili connessioni eterocline date due traiettorie quasi-periodiche instabili e allo stesso livello energetico».</p>
  296. <p><strong>Su quali </strong><strong>sistemi</strong><strong> avete testato la tecnica?</strong></p>
  297. <p>«Il vantaggio del problema ristretto dei tre corpi è che può essere applicato più o meno a tutti i sistemi del Sistema solare. Basta prendere il Sole e un pianeta, oppure un pianeta e una delle sue lune, come nel caso delle <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Satelliti_medicei">lune Galileiane</a> di Giove. Al momento abbiamo applicato il nostro approccio con successo per calcolare connessioni eterocline tra orbite quasi-periodiche sia nel sistema Terra-Luna che in quello Sole-Terra, lo stesso utilizzato per il disegno dell’orbita del Jwst. Abbiamo anche provato con successo a calcolare connessioni eterocline tra orbite quasi-periodiche nei pressi di Ganimede sapendo che sarà il punto finale di una missione Europea appena lanciata e molto affascinante come <a href="https://www.media.inaf.it/tag/juice/">Juice</a>».</p>
  298. <p><strong>Quali sono le missioni che potranno beneficiare del vostro studio?</strong></p>
  299. <p>«Tutte le missioni spaziali che vengono concepite cercando di sfruttare la caoticità del problema dei tre corpi per ridurre il consumo di carburante possono beneficiare del nostro approccio. Penso alle missioni lunari a venire che contribuiranno alla costruzione del Lunar Orbital Platform Gateway e a quelle che verranno rilasciate dalla nuova stazione spaziale per esplorare lo spazio lunare. Penso anche a telescopi spaziali futuri che raggiungeranno Jwst e altri satelliti europei come <a href="https://www.media.inaf.it/tag/gaia/">Gaia</a> ed <a href="https://www.media.inaf.it/tag/euclid/">Euclid</a> in orbite quasi-periodiche attorno al <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Punti_di_Lagrange#L2" target="_blank" rel="noopener">secondo punto lagrangiano</a> del sistema Sole-Terra. In realtà, il nostro metodo può essere applicato anche per le missioni già in orbita attorno a punti lagrangiani, che si accingono a raggiungere la fine delle operazioni scientifiche previste dal progetto per le quali sono state lanciate. Si tratta di satelliti ancora funzionanti, già in orbita, e con quantità di propellente limitato che possono sfruttare le connessioni eterocline per essere riposizionati in nuovi punti strategici e/o orbite quasi-periodiche contribuendo a fornire nuove prospettive e osservazioni del nostro universo».</p>
  300. <hr />
  301. <p><strong>Per saperne di più:</strong></p>
  302. <ul>
  303. <li>Leggi su <em>Astrodynamics</em> l’articolo “<a href="https://link.springer.com/article/10.1007/s42064-024-0201-0">Applications of knot theory to the detection of heteroclinic connections between quasi-periodic orbits</a>” di Danny Owen e Nicola Baresi</li>
  304. </ul>
  305. <p>&nbsp;</p>
  306. ]]></content:encoded>
  307. </item>
  308. <item>
  309. <title>Così giovani e già così barrate</title>
  310. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/26/bvarre-galattiche-precoci-jwst/</link>
  311. <dc:creator><![CDATA[Laura Leonardi]]></dc:creator>
  312. <pubDate>Fri, 26 Apr 2024 10:20:13 +0000</pubDate>
  313. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
  314. <category><![CDATA[News]]></category>
  315. <category><![CDATA[Formazione galattica]]></category>
  316. <category><![CDATA[galassia barrata]]></category>
  317. <category><![CDATA[James Webb Space Telescope]]></category>
  318. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1752897</guid>
  319.  
  320. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/26/bvarre-galattiche-precoci-jwst/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image-150x150.jpg 150w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image-340x340.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image-664x664.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image-660x660.jpg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image.jpg 700w" sizes="(max-width: 96px) 100vw, 96px" /></a>Su 368 galassie a disco primordiali osservate con il James Webb Space Telescope da un team della Durham University, quasi il venti per cento mostra la presenza di barre: il doppio di quanto stimato con Hubble. Pubblicato questa settimana su Mnras, è un risultato inaspettato: suggerisce che le prime galassie dell’universo si sarebbero evolute molto più velocemente di quanto teorizzato in precedenza]]></description>
  321. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/26/bvarre-galattiche-precoci-jwst/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image-150x150.jpg 150w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image-340x340.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image-664x664.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image-660x660.jpg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Milky-Way-ESO-Image.jpg 700w" sizes="(max-width: 96px) 100vw, 96px" /></a><p>Non è la prima volta che l’occhio del James Webb Space Telescope (<a href="https://www.media.inaf.it/tag/jwst/">Jwst</a>) supera le aspettative teoriche, presentandoci un universo più precoce di quanto ci si attendeva. È quello che è successo – di nuovo – studiando la formazione delle barre nelle galassie e andando a osservare come apparivano tra gli otto e gli undici miliardi di anni fa – dunque quando l’universo, che oggi ha 13,7 miliardi di anni, era ancora molto giovane.</p>
  322. <div id="attachment_1752901" style="width: 701px" class="wp-caption alignnone"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Hubble-James-Webb-comparison-e1713971388150.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752901" class="wp-image-1752901 size-full" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Hubble-James-Webb-comparison-e1713971388150.jpg" alt="" width="700" height="274" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Hubble-James-Webb-comparison-e1713971388150.jpg 700w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Hubble-James-Webb-comparison-e1713971388150-340x133.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Hubble-James-Webb-comparison-e1713971388150-664x260.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Low-Res_Hubble-James-Webb-comparison-e1713971388150-660x258.jpg 660w" sizes="(max-width: 700px) 100vw, 700px" /></a><p id="caption-attachment-1752901" class="wp-caption-text">Un&#8217;immagine in scala di grigi della galassia Egs 31125 a 10,6 miliardi di anni fa, classificata visivamente come “fortemente barrata” (la barra è evidenzaiata nell&#8217;immagine centrale dall’ellisse viola, mentre le due linee viola continue indicano i bracci a spirale). Da sinistra a destra: un&#8217;immagine di Hubble e due della NirCam di Jwst, con il filtro F356W (al centro) e con quello F444W (a destra). Il confronto fra i diversi filtri mostra gli effetti della funzione di diffusione del punto (Psf), della sensibilità e della gamma di lunghezze d&#8217;onda sull&#8217;immagine della galassia, in particolare nel contesto delle barre. Crediti: Zoe Le Conte</p></div>
  323. <p>Ebbene, sembrerebbe che le prime galassie fossero meno caotiche e si sviluppassero molto più velocemente del previsto. A sostenerlo, un <a href="https://doi.org/10.1093/mnras/stae921" target="_blank" rel="noopener">nuovo risultato</a> ottenuto da un team guidato da <strong>Zoe Le Conte</strong> della Durham University, nel Regno Unito, e pubblicato questa settimana su <em>Monthly Notices of the Royal Astronomical Society</em>. Utilizzando Jwst i ricercatori sono infatti riusciti osservare la presenza di numerose <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Galassia_a_spirale_barrata" target="_blank" rel="noopener">galassie barrate</a> – vale a dire, galassie il cui nucleo è attraversato da una barra di stelle, come per esempio nella Via Lattea – quando l’universo aveva solo pochi miliardi di anni. Man mano che le barre si sviluppano, regolano la formazione stellare all&#8217;interno di una galassia, spingendo il gas verso il centro galattico. La loro presenza – <a href="https://science.nasa.gov/missions/hubble/nasa-barred-spiral-galaxies-are-latecomers-to-the-universe/" target="_blank" rel="noopener">del tutto inattesa</a> – indica che le galassie avevano raggiunto una fase stabile e matura già tra gli 8 e gli 11,5 miliardi di anni fa.</p>
  324. <p>«Questa è una vera sorpresa, perché ci si aspetterebbe che l&#8217;universo in quella fase fosse molto turbolento, con molte collisioni tra galassie e molto gas che non si è ancora trasformato in stelle», spiega Le Conte. «Tuttavia, grazie al telescopio spaziale James Webb, stiamo osservando molte di queste barre apparire ben prima nella vita dell’universo, il che significa che le galassie si trovavano in uno stadio della loro evoluzione più stabile di quanto si pensasse in precedenza e che dovremo modificare le nostre teorie sull&#8217;evoluzione delle prime galassie».</p>
  325. <p>Precedenti studi condotti utilizzando il telescopio spaziale Hubble erano stati in grado di rilevare galassie con le loro barre in formazione risalenti fino a otto o nove miliardi di anni fa. Tuttavia, la maggiore sensibilità e la gamma di lunghezze d’onda offerte da Jwst hanno permesso ai ricercatori di vedere il fenomeno accadere ancora più indietro nel tempo. Delle 368 galassie a disco osservate, i ricercatori hanno visto che quasi il venti per cento mostrava delle barre: il doppio di quanto visto con Hubble. «Ciò implica che l’evoluzione delle galassie guidata dalle barre sta accadendo da molto più tempo di quanto si pensasse», dice <strong>Dimitri Gadotti</strong>, della Durham University, coautore dello studio. «Le simulazioni dell&#8217;universo ora devono essere esaminate per vedere se producono gli stessi risultati ottenuti dalle osservazioni fatte con James Webb».</p>
  326. <p>Il prossimo passo sarà quello di indagare ancora più galassie per verificare se già mostravano barre in epopca primordiale. La speranza è di riuscire a spingersi fino a circa 12,2 miliardi di anni fa, per osservare la crescita delle barre nel tempo e comprendere i meccanismi fisici che si celano dietro il loro sviluppo. Più si guarda indietro nel tempo, notano infatti gli autori dello studio, e meno galassie s’incontrano che formano barre. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che le galassie a uno stadio ancora più precoce dell&#8217;universo potrebbero non essere così ben formate, ma attualmente non c’è modo – nemeno per Jwst – di osservare barre di stelle più corte, e dunque meno facili da individuare.</p>
  327. <p><strong>Per saperne di più:</strong></p>
  328. <ul>
  329. <li>Leggi su <em>Monthly Notices of the Royal Astronomical Society </em>l&#8217;articolo &#8220;<a href="https://academic.oup.com/mnras/article/530/2/1984/7653430">A <em>JWST</em> investigation into the bar fraction at redshifts 1 ≤ <em>z</em> ≤ 3</a>&#8221; di Zoe A. Le Conte, Dimitri A. Gadotti, Leonardo Ferreira, Christopher J. Conselice, Camila de Sá-Freitas, Taehyun Kim, Justus Neumann, Francesca Fragkoudi, E. Athanassoula e Nathan J Adams</li>
  330. </ul>
  331. ]]></content:encoded>
  332. </item>
  333. <item>
  334. <title>Una magnetar accende la galassia Sigaro</title>
  335. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/24/m82-super-flare/</link>
  336. <dc:creator><![CDATA[Ufficio stampa Inaf]]></dc:creator>
  337. <pubDate>Wed, 24 Apr 2024 15:29:37 +0000</pubDate>
  338. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
  339. <category><![CDATA[Comunicati stampa]]></category>
  340. <category><![CDATA[News]]></category>
  341. <category><![CDATA[Flare]]></category>
  342. <category><![CDATA[Galassia Sigaro]]></category>
  343. <category><![CDATA[GRB]]></category>
  344. <category><![CDATA[GRB 231115A]]></category>
  345. <category><![CDATA[IASF Milano]]></category>
  346. <category><![CDATA[INAF]]></category>
  347. <category><![CDATA[INTEGRAL]]></category>
  348. <category><![CDATA[m82]]></category>
  349. <category><![CDATA[Telescopio Nazionale Galileo]]></category>
  350. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1752818</guid>
  351.  
  352. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/24/m82-super-flare/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2017/07/M82_starburst-120x120.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2017/07/M82_starburst-120x120.jpg 120w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2017/07/M82_starburst-150x150.jpg 150w" sizes="(max-width: 96px) 100vw, 96px" /></a>Rilevato dal telescopio spaziale Integral dell’Esa il 15 novembre 2023 sotto forma di lampo di raggi gamma durato appena un decimo di secondo, è il primo “giant flare” a oggi noto prodotto da una magnetar in una galassia che non appartiene al Gruppo Locale. L’articolo relativo alla scoperta, guidata da Sandro Mereghetti dell’Istituto nazionale di astrofisica, è stato pubblicato oggi su Nature
  353. ]]></description>
  354. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/24/m82-super-flare/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2017/07/M82_starburst-120x120.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2017/07/M82_starburst-120x120.jpg 120w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2017/07/M82_starburst-150x150.jpg 150w" sizes="(max-width: 96px) 100vw, 96px" /></a><div id="attachment_1752820" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Composite_GRB231115A-scaled.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752820" class="wp-image-1752820 size-medium" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Composite_GRB231115A-340x255.jpg" alt="" width="340" height="255" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Composite_GRB231115A-340x255.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Composite_GRB231115A-664x498.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Composite_GRB231115A-768x576.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Composite_GRB231115A-1536x1151.jpg 1536w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Composite_GRB231115A-2048x1535.jpg 2048w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Composite_GRB231115A-660x495.jpg 660w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1752820" class="wp-caption-text">La sezione di cielo osservata dal rilevatore di raggi gamma sul satellite Integral dell’Esa. Uno dei due riquadri mostra i dati a raggi X della galassia M82 e l&#8217;altro mostra un&#8217;osservazione in luce visibile. Il cerchio blu sulle due immagini ritagliate indica la posizione corrispondente al brillamento gigante. Crediti: Esa/Integral, Esa/Xmm-Newton, Inaf/Tng, M. Rigoselli (Inaf)</p></div>
  355. <p>Utilizzando i dati del satellite dell’Agenzia spaziale europea (Esa) <a href="https://www.media.inaf.it/tag/integral/">Integral</a>, costruito con il contributo dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), responsabile del telescopio principale <a href="https://www.cosmos.esa.int/web/integral/instruments-ibis" target="_blank" rel="noopener">Ibis</a>, il 15 novembre 2023 un gruppo di ricercatrici e ricercatori guidati dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha individuato l’improvvisa esplosione di un oggetto raro: per solo un decimo di secondo, un rapido lampo di raggi gamma è apparso dalla direzione di una luminosa galassia vicino alla nostra. Di cosa si tratta? Il team ha scoperto <b>la presenza di un brillamento gigante </b>(<i>giant flare</i>, in inglese)<b> generato da una magnetar nella galassia Sigaro</b> (conosciuta anche con le sigle <a href="https://www.youtube.com/watch?v=zKANmaEupO4">M82</a> o <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Galassia_Sigaro" target="_blank" rel="noopener">Ngc 3034</a>), uno degli oggetti celesti più affascinanti che costellano il cielo. L’<a href="https://www.nature.com/articles/s41586-024-07285-4" target="_blank" rel="noopener">articolo</a> relativo alla scoperta è stato pubblicato oggi sulla rivista <i>Nature</i>.</p>
  356. <p>Particolare classe di stelle di neutroni (resti stellari super-densi delle esplosioni di supernove), le <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Magnetar" target="_blank" rel="noopener">magnetar</a> sono i magneti più potenti dell’universo, noti per emettere brevi esplosioni di raggi gamma che in genere durano meno di un secondo ma sono miliardi di volte più luminose del Sole. Le magnetar possono produrre brillamenti giganti, cioè brevi esplosioni durante le quali possono emettere in meno di un secondo l&#8217;energia che il Sole irradia in un milione di anni, ma individuarle è davvero arduo.</p>
  357. <p>La scoperta è stata ottenuta grazie all’Integral Burst Alert System (<a href="http://ibas.iasf-milano.inaf.it/" target="_blank" rel="noopener">Ibas</a>), che permette la localizzazione in tempo reale di lampi di raggi gamma e altri fenomeni transienti nei raggi gamma. Nello specifico, <strong>Integral ha rilevato un lampo di raggi gamma solo per un decimo di secondo</strong>. Il software di Ibas, che esamina i dati ricevuti al data center scientifico Integral di Ginevra, ha determinato la localizzazione precisa di questo evento e l’ha distribuita agli astronomi di tutto il mondo solo tredici secondi dopo che Integral lo aveva rivelato.</p>
  358. <p>«Quando il software automatico Ibas ci ha allertati per questo evento, ci siamo subito resi conto che si trattava di qualcosa di speciale. Si sospetta da tempo che alcuni dei lampi di raggi gamma di breve durata (<a href="https://www.media.inaf.it/tag/grb/">Grb</a>, lampi luminosi di raggi gamma osservati al ritmo di uno al giorno da direzioni imprevedibili del cielo) potrebbero essere <em>giant flare</em> provenienti da magnetar nelle galassie vicine, ma ciò non era stato ancora dimostrato in maniera inequivocabile», spiega <b>Sandro Mereghetti</b>, primo autore dell’articolo e ricercatore all’Inaf di Milano. «I brillamenti giganti sono la manifestazione più estrema delle magnetar, in termini di energia emessa e rapidità, ma non si conosce ancora bene cosa li produca». Quello scoperto dal team guidato da Inaf (<a href="https://gcn.nasa.gov/circulars?query=231115A" target="_blank" rel="noopener">Grb 231115A</a>) è il primo <em>giant flare</em> generato da una magnetar in una galassia che non appartiene al <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Locale" target="_blank" rel="noopener">Gruppo Locale</a>.</p>
  359. <p>«Sono eventi estremamente rari, tanto che ne sono stati osservati solo tre in 50 anni: due nella nostra galassia e uno nella Grande Nube di Magellano. Poterli rivelare anche in galassie più lontane, come nel presente caso, permette di studiarne un maggior numero e in condizioni più favorevoli», sottolinea Mereghetti. «I casi precedenti di “candidati” <em>giant flare</em> al di fuori del Gruppo Locale non erano stati individuati in tempo reale e le incertezze sulla loro posizione rende incerte anche le associazioni con galassie vicine».</p>
  360. <p>«Integral è un telescopio spaziale longevo e a 22 anni dal lancio continua a fornire contributi sorprendenti», ricorda <b>Elisabetta Cavazzuti</b>, responsabile Asi del programma Integral. «Il team scientifico ha migliorato sempre più l’utilizzo di tutti gli apparati del satellite, sviluppando un software che sfrutta ogni singola informazione trasmessa dal telescopio anche in maniera completamente nuova. Questo modo di osservare e sfruttare gli strumenti in ottica sempre innovativa consente di raggiungere risultati importanti confermando che l’universo è fonte inesauribile di scoperte».</p>
  361. <p>La rilevazione del fenomeno con Integral ha avviato poi una serie di osservazioni rapide ad altre lunghezze d&#8217;onda (ottiche, X, radio) che hanno permesso di stabilirne la natura. Nell’articolo i ricercatori presentano, infatti, anche dati richiesti al satellite <a href="https://www.media.inaf.it/tag/xmm/">Xmm-Newton</a> e dati ottici provenienti da telescopi italiani dell’Inaf (il <a href="https://www.media.inaf.it/tag/tng/">Tng</a> alle Canarie, lo Schmidt di Asiago e lo Schmidt di Campo Imperatore) e francesi (come il French Observatoire de Haute-Provence): se si fosse trattato di un lampo di raggi gamma causato dalla collisione di due stelle di neutroni, lo scontro avrebbe creato onde gravitazionali e avrebbe avuto un intenso bagliore residuo nei raggi X e nella luce visibile. Le osservazioni di Xmm-Newton hanno mostrato solo il gas caldo e le stelle nella galassia.</p>
  362. <p>L’articolo pubblicato su <i>Nature</i> conferma quindi un’ipotesi che si sospettava da diversi anni. «Inoltre non è casuale che questo brillamento gigante provenga proprio da una delle galassie che sta formando nuove stelle di alta massa a un ritmo elevato. In queste regioni ci si aspetta, infatti, di trovare il maggior numero di stelle di neutroni e quindi di magnetar», aggiunge <strong>Ruben Salvaterra</strong>, ricercatore Inaf di Milano e coautore dell’articolo.</p>
  363. <p>Osservabile anche con piccoli telescopi, M82 è una galassia <i>starburst </i>(in cui appunto il processo di formazione stellare è eccezionalmente elevato) a spirale barrata che si trova a circa 12 milioni di anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione dell’Orsa Maggiore. L’interazione gravitazionale con altre galassie vicine, in particolare M81, ha accelerato drasticamente il suo tasso di formazione stellare che è almeno dieci volte maggiore di quello della Via Lattea.</p>
  364. <p><b>«</b>Dopo questa scoperta, la galassia M82 diventa un “sorvegliato speciale” da cui aspettarci altri eventi simili nei prossimi anni», conclude Mereghetti.</p>
  365. <p><b>Per saperne di più:</b></p>
  366. <ul>
  367. <li>Leggi su <em>Nature</em> l’articolo “<a href="https://www.nature.com/articles/s41586-024-07285-4" target="_blank" rel="noopener">A magnetar giant flare in the nearby starburst galaxy M82</a>”, di Sandro Mereghetti, Michela Rigoselli, Ruben Salvaterra, Dominik P. Pacholski, James C. Rodi, Diego Gotz, Edoardo Arrigoni, Paolo D&#8217;Avanzo, Christophe Adami, Angela Bazzano, Enrico Bozzo, Riccardo Brivio, Sergio Campana, Enrico Cappellaro, Jerome Chenevez, Fiore De Luise, Lorenzo Ducci, Paolo Esposito, Carlo Ferrigno, Matteo Ferro, Gian Luca Israel, Emeric Le Floc&#8217;h, Antonio Martin-Carrillo, Francesca Onori, Nanda Rea, Andrea Reguitti, Volodymyr Savchenko, Damya Souami, Leonardo Tartaglia, William Thuillot, Andrea Tiengo, Lina Tomasella, Martin Topinka, Damien Turpin e Pietro Ubertini</li>
  368. </ul>
  369. <p>&nbsp;</p>
  370. ]]></content:encoded>
  371. </item>
  372. <item>
  373. <title>Vicino a Sagittarius A* con l’intelligenza artificiale</title>
  374. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/24/buco-nero-centrale-nerf/</link>
  375. <dc:creator><![CDATA[Maura Sandri]]></dc:creator>
  376. <pubDate>Wed, 24 Apr 2024 09:22:05 +0000</pubDate>
  377. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
  378. <category><![CDATA[Informatica]]></category>
  379. <category><![CDATA[News]]></category>
  380. <category><![CDATA[ALMA]]></category>
  381. <category><![CDATA[Buco nero supermassiccio]]></category>
  382. <category><![CDATA[deep learning]]></category>
  383. <category><![CDATA[intelligenza artificiale]]></category>
  384. <category><![CDATA[Sgr A*]]></category>
  385. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1752864</guid>
  386.  
  387. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/24/buco-nero-centrale-nerf/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/sgra-copertina-150x150.png" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>Grazie alla sinergia tra informatici e astrofisici, è stato possibile utilizzare i dati di Alma con un nuovo metodo di intelligenza artificiale che non solo incorpora la fisica della curvatura dello spaziotempo e la dinamica attorno a un buco nero, ma anche l'emissione polarizzata della luce, per ricostruire in 3D due brillamenti che si sono verificati intorno a Sgr A*, il buco nero nel cuore della nostra galassia]]></description>
  388. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/24/buco-nero-centrale-nerf/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/sgra-copertina-150x150.png" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><div id="attachment_1690378" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2020/05/20200511_SgrAstar-768x768-1.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1690378" class="size-medium wp-image-1690378" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2020/05/20200511_SgrAstar-768x768-1-340x340.jpg" alt="" width="340" height="340" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2020/05/20200511_SgrAstar-768x768-1-340x340.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2020/05/20200511_SgrAstar-768x768-1-664x664.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2020/05/20200511_SgrAstar-768x768-1-150x150.jpg 150w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2020/05/20200511_SgrAstar-768x768-1-660x660.jpg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2020/05/20200511_SgrAstar-768x768-1-120x120.jpg 120w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2020/05/20200511_SgrAstar-768x768-1.jpg 768w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1690378" class="wp-caption-text">Illustrazione artistica del disco di accrescimento attorno a un buco nero supermassiccio. Sono mostrati due hot spots, le bolle di plasma incandescente che secondo Yuhei Iwata et al. potrebbero produrre l&#8217;emissione quasi-periodica millimetrica rilevata da Alma. Crediti: Keio University</p></div>
  389. <p>L&#8217;ambiente circostante l’<a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Orizzonte_degli_eventi" target="_blank" rel="noopener">orizzonte degli eventi</a> di un <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Buco_nero" target="_blank" rel="noopener">buco nero</a> è noto essere piuttosto tumultuoso, con gas caldo magnetizzato che spiraleggia su un <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Disco_di_accrescimento" target="_blank" rel="noopener">disco</a> a velocità e temperature tremende. Le osservazioni astronomiche mostrano che all&#8217;interno di questo disco si verificano <a href="https://www.media.inaf.it/2020/05/27/segnali-cuore-via-lattea/">misteriosi brillamenti</a> fino a diverse volte al giorno, che si accendono temporaneamente e poi svaniscono. Ora, un team guidato da scienziati del <a href="https://www.caltech.edu/" target="_blank" rel="noopener">Caltech</a> ha utilizzato i dati raccolti dall’Atacama Large Millimeter/ submillimeter Array (<a href="https://www.media.inaf.it/tag/alma/">Alma</a>) – in un periodo di 100 minuti, subito dopo un&#8217;eruzione osservata in banda X l&#8217;11 aprile 2017 – e una tecnica di <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Intelligenza_artificiale" target="_blank" rel="noopener">intelligenza artificiale</a>, per ottenere <strong>la prima ricostruzione 3D</strong> che mostra l&#8217;aspetto di questi brillamenti intorno a <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Sagittarius_A*" target="_blank" rel="noopener">Sagittarius A*</a> (Sgr A*), il <a href="https://www.media.inaf.it/2017/05/26/buchi-neri-supermassicci/" rel="noopener">buco nero supermassiccio</a> nel cuore della nostra galassia. La struttura tridimensionale del brillamento riprodotta nel video pubblicato, presenta <strong>due caratteristiche luminose e compatte</strong>, a circa 75 milioni di chilometri (ovvero la metà della distanza tra la Terra e il Sole) dal centro del buco nero.</p>
  390. <p><strong>Aviad Levis</strong>, primo autore dello <a href="https://www.nature.com/articles/s41550-024-02238-3" target="_blank" rel="noopener">studio</a> uscito ieri su <em>Nature Astronomy</em>, sottolinea che il video <strong>non è una simulazione, ma nemmeno una registrazione diretta degli eventi</strong> così come si sono svolti. «È una ricostruzione basata sui nostri modelli fisici dei buchi neri. C&#8217;è ancora molta incertezza perché si basa sull&#8217;accuratezza di questi modelli», afferma.</p>
  391. <p>Per ricostruire l&#8217;immagine 3D, il team ha sviluppato nuovi strumenti di <em>imaging</em> computazionale che tengono conto della traiettoria della luce in presenza della curvatura dello <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Spaziotempo" target="_blank" rel="noopener">spaziotempo</a> intorno a oggetti caratterizzati da un’enorme gravità.</p>
  392. <div id="attachment_1672740" style="width: 341px" class="wp-caption alignleft"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2019/04/buco.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1672740" class="size-medium wp-image-1672740" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2019/04/buco-340x255.jpg" alt="" width="340" height="255" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2019/04/buco-340x255.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2019/04/buco-660x495.jpg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2019/04/buco-768x576.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2019/04/buco-664x498.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2019/04/buco.jpg 2048w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1672740" class="wp-caption-text">Il buco nero supermassiccio al centro di Messier 87. Crediti: The Event Horizon Telescope</p></div>
  393. <p>Quando venne pubblicata la prima immagine del buco nero supermassiccio al centro della galassia M87, <strong>Pratul Srinivasan</strong> di GoogleResearch, coautore del nuovo studio, era in visita al team del Caltech. Aveva contribuito a sviluppare una tecnica nota come Neural Radiance Fields (<a href="https://en.wikipedia.org/wiki/Neural_radiance_field" target="_blank" rel="noopener">Nerf</a>), che all&#8217;epoca iniziava a essere utilizzata dai ricercatori e che da allora ha avuto un enorme impatto sulla computer grafica. Nerf utilizza l&#8217;apprendimento profondo per creare una rappresentazione 3D di una scena basata su immagini 2D, fornendo così un modo per osservare la scena da diverse angolazioni, anche quando sono disponibili solo viste limitate della scena stessa. Il team all’epoca si chiese se, basandosi su questi recenti sviluppi nelle rappresentazioni delle reti neurali, fosse possibile ricostruire l&#8217;ambiente 3D intorno a un buco nero.</p>
  394. <p>Il punto è che dalla Terra, o anche da un satellite nello spazio, abbiamo solo un unico punto di vista del buco nero. Secondo gli scienziati, questo problema può essere risolvibile perché il gas si comporta in modo piuttosto prevedibile quando si muove intorno al buco nero. Scattando istantanee temporizzate dell’oggetto e sfruttando la conoscenza del modo in cui il gas si muove a diverse distanze da un buco nero, è possibile risolvere la ricostruzione dei brillamenti in 3D con misurazioni effettuate dalla Terra nel tempo.</p>
  395. <p>Così, i ricercatori hanno implementato una versione di Nerf che tiene conto del modo in cui il gas si muove intorno al buco nero. Sotto la guida di <strong>Andrew Chael</strong> dell&#8217;<a href="https://www.princeton.edu/" target="_blank" rel="noopener">Università di Princeton</a>, hanno sviluppato un modello di calcolo per simulare il <em>lensing</em> gravitazionale. La nuova versione di Nerf è stata così in grado di recuperare la struttura degli elementi luminosi orbitanti attorno all&#8217;orizzonte degli eventi di un buco nero.</p>
  396. <div id="attachment_1723611" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2022/05/ALMA-Via-Lattea-SgrA_-scaled.jpeg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1723611" class="size-medium wp-image-1723611" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2022/05/ALMA-Via-Lattea-SgrA_-340x218.jpeg" alt="" width="340" height="218" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2022/05/ALMA-Via-Lattea-SgrA_-340x218.jpeg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2022/05/ALMA-Via-Lattea-SgrA_-664x426.jpeg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2022/05/ALMA-Via-Lattea-SgrA_-768x493.jpeg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2022/05/ALMA-Via-Lattea-SgrA_-1536x986.jpeg 1536w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2022/05/ALMA-Via-Lattea-SgrA_-2048x1315.jpeg 2048w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2022/05/ALMA-Via-Lattea-SgrA_-660x424.jpeg 660w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1723611" class="wp-caption-text">Chi ha l’orizzonte libero potrà ammirare a Sud la costellazione del Sagittario, dove si trova il centro della nostra galassia. Crediti: Eso/José Francisco Salgado (josefrancisco.org), Eht Collaboration</p></div>
  397. <p>Ma il team aveva bisogno di dati reali per testare il nuovo metodo di ricostruzione ed è qui che è entrato in gioco Alma. L&#8217;immagine di <a href="https://eventhorizontelescope.org/" target="_blank" rel="noopener">Eht</a> di Sgr A* si basava sui dati raccolti il 6 e 7 aprile 2017, giorni relativamente tranquilli nell&#8217;ambiente circostante il buco nero. Tuttavia, pochi giorni dopo, l’11 aprile, gli astronomi hanno rilevato una luminosità esplosiva e improvvisa nell&#8217;ambiente circostante. Quando <strong>Maciek Wielgus</strong>, del <a href="https://www.mpifr-bonn.mpg.de/2169/en" target="_blank" rel="noopener">Max Planck Institute for Radio Astronomy</a> in Germania, ha riesaminato i dati Alma di quel giorno, ha notato un segnale con un periodo corrispondente al tempo necessario a un punto luminoso all&#8217;interno del disco per completare un&#8217;orbita intorno a Sgr A*.</p>
  398. <p>Sebbene Alma sia uno dei radiotelescopi più potenti al mondo, a causa della grande distanza dal centro galattico (più di 26mila anni luce), non ha la risoluzione necessaria per vedere i dintorni di Sgr A*. Ciò che Alma misura sono le curve di luce, ossia l’intensità di un singolo pixel tremolante rilevata in vari istanti. Recuperare un volume 3D da un singolo pixel potrebbe sembrare impossibile ma sfruttando ciò che si conosce della fisica dei dischi di accrescimento, il team è riuscito ad aggirare la mancanza di informazioni spaziali nei dati di Alma.</p>
  399. <p>C’è di più. Alma non si limita a catturare una singola curva di luce bensì ne registra due, a due diversi stati di polarizzazione della luce. Come la lunghezza d&#8217;onda e l&#8217;intensità, la polarizzazione è una proprietà fondamentale della luce e rappresenta la direzione in cui la componente elettrica di un&#8217;onda luminosa è orientata rispetto alla direzione di propagazione dell&#8217;onda.</p>
  400. <p>Recenti studi teorici suggeriscono che le zone calde che si formano all&#8217;interno del gas sono fortemente polarizzate, il che significa che il campo elettrico delle onde luminose provenienti da queste zone ha una direzione privilegiata, al contrario con il resto del gas, in cui la direzione del campo elettrico è casuale. Raccogliendo le misure delle diverse polarizzazioni, i dati di Alma hanno fornito agli scienziati informazioni utili per localizzare la provenienza dell&#8217;emissione nello spazio 3D.</p>
  401. <div id="attachment_1752872" style="width: 290px" class="wp-caption alignleft"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/sgra-flares-animated.gif"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752872" class="size-full wp-image-1752872" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/sgra-flares-animated.gif" alt="" width="289" height="229" /></a><p id="caption-attachment-1752872" class="wp-caption-text">Basandosi sui dati di Alma, un team guidato dal Caltech ha utilizzato reti neurali per ricostruire un&#8217;immagine 3D che mostra come potrebbero apparire i brillamenti nel disco di gas attorno a Sagittarius A*. La struttura tridimensionale dei brillamenti presenta due elementi luminosi e compatti situati a circa 75 milioni di chilometri dal centro del buco nero. Qui, la struttura 3D ricostruita è vista da un angolo fisso mentre il modello si evolve nell&#8217;arco di circa 100 minuti, mostrando il percorso che le due caratteristiche luminose tracciano intorno al buco nero. Crediti: A. Levis/A. Chael/K. Bouman/M. Wielgus/P. Srinivasan</p></div>
  402. <p>Per individuare una probabile struttura tridimensionale che spiegasse le osservazioni, il team ha sviluppato una versione aggiornata del suo metodo che non solo incorpora la fisica della curvatura della luce e la dinamica attorno a un buco nero, ma anche l&#8217;emissione polarizzata prevista nei punti caldi in orbita attorno al buco nero. In questa tecnica, ogni struttura del bagliore viene rappresentata come un volume continuo utilizzando una rete neurale. Ciò consente ai ricercatori di far evolvere dal punto di vista computazionale la struttura 3D iniziale di un hotspot nel tempo, mentre orbita attorno al buco nero, per creare un&#8217;intera curva di luce. Hanno quindi potuto risolvere la migliore struttura 3D iniziale che, progredendo nel tempo secondo la fisica del buco nero, corrispondeva alle osservazioni di Alma. Il risultato è un video che mostra il movimento in senso orario di due regioni luminose compatte che tracciano un percorso attorno al buco nero, molto simili a quelle previste dalle simulazioni al computer dei buchi neri.</p>
  403. <p>Questo risultato è stato possibile grazie alla sinergia tra informatici e astrofisici. «Insieme, abbiamo sviluppato qualcosa che è all&#8217;avanguardia in entrambi i campi: sia lo sviluppo di codici numerici che modellano il modo in cui la luce si propaga attorno ai buchi neri, sia il lavoro di <em>imaging</em> computazionale che abbiamo svolto», conclude Levis. «Si tratta di un&#8217;applicazione molto interessante di come l&#8217;intelligenza artificiale e la fisica possano unirsi per rivelare qualcosa che altrimenti non si vedrebbe. Speriamo che gli astronomi possano utilizzarla su altre serie temporali di dati per far luce sulla complessa dinamica di altri eventi simili e trarre nuove conclusioni».</p>
  404. <p><strong>Per saperne di più:</strong></p>
  405. <ul>
  406. <li>Leggi su <em>Nature Astronomy</em> l’articolo “<a href="https://www.nature.com/articles/s41550-024-02238-3" target="_blank" rel="noopener">Orbital Polarimetric Tomography of a Flare Near the Sagittarius A* Supermassive Black Hole</a>” di Aviad Levis, Andrew A. Chael, Katherine L. Bouman, Maciek Wielgus &amp; Pratul P. Srinivasan</li>
  407. </ul>
  408. ]]></content:encoded>
  409. </item>
  410. <item>
  411. <title>Gli anelli di fumo dell’Etna affascinano la Nasa</title>
  412. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/23/anelli-umo-etna-apod/</link>
  413. <dc:creator><![CDATA[Chiara Badia]]></dc:creator>
  414. <pubDate>Tue, 23 Apr 2024 16:36:32 +0000</pubDate>
  415. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
  416. <category><![CDATA[Geologia]]></category>
  417. <category><![CDATA[News]]></category>
  418. <category><![CDATA[Avengers]]></category>
  419. <category><![CDATA[etna]]></category>
  420. <category><![CDATA[Nasa Apod]]></category>
  421. <category><![CDATA[OA Abruzzo]]></category>
  422. <category><![CDATA[Venere]]></category>
  423. <category><![CDATA[vulcani]]></category>
  424. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1752851</guid>
  425.  
  426. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/23/anelli-umo-etna-apod/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/EtnaRingsMoonCrop_Giannobile_960-1-150x150.jpeg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>Le sorprendenti emissioni circolari del vulcano siciliano immortalate dall’astrofotografo siracusano Dario Giannobile, che è riuscito a cogliere un particolare momento di luci e suggestioni, sono state scelte come immagine astronomica del giorno. E proprio sull’Etna è in programma a breve una missione dei geologi planetari dell’Inaf per studiare le lave recenti e confrontarle con quelle dei vulcani di Venere]]></description>
  427. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/23/anelli-umo-etna-apod/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/EtnaRingsMoonCrop_Giannobile_960-1-150x150.jpeg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><div id="attachment_1752853" style="width: 316px" class="wp-caption alignright"><a href="https://apod.nasa.gov/apod/ap240422.html" target="_blank" rel="noopener"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752853" class="wp-image-1752853 size-medium" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/EtnaRingsMoonCrop_Giannobile_960-315x340.jpeg" alt="" width="315" height="340" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/EtnaRingsMoonCrop_Giannobile_960-315x340.jpeg 315w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/EtnaRingsMoonCrop_Giannobile_960-615x664.jpeg 615w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/EtnaRingsMoonCrop_Giannobile_960-768x829.jpeg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/EtnaRingsMoonCrop_Giannobile_960-660x712.jpeg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/EtnaRingsMoonCrop_Giannobile_960.jpeg 960w" sizes="(max-width: 315px) 100vw, 315px" /></a><p id="caption-attachment-1752853" class="wp-caption-text">“Luna e anelli di fumo dall&#8217;Etna” è la foto selezionata come Apod della Nasa del 22 aprile 2024. Crediti e copyright: Dario Giannobile</p></div>
  428. <p>La notizia e le immagini degli “anelli di fumo” fuoriusciti dall’Etna <a href="https://www.rainews.it/articoli/2024/04/la-signora-degli-anelli-che-cosa-sono-i-cerchi-di-fumo-sull-etna-fenomeno-spettacolare-e3d06d92-98e2-4f84-b53f-c84d80f7a0b8.html" target="_blank" rel="noopener">hanno fatto il giro del mondo</a>. Ma se aggiungiamo un’alba scaldata dalla luce rossa del Sole e una falce di Luna in cielo, ecco che il paesaggio diventa ancora più spettacolare tanto da finire come foto del giorno scelta dalla Nasa per la rassegna di immagini <a href="https://apod.nasa.gov/apod/ap240422.html">Apod</a> – Astronomy Picture of the Day.</p>
  429. <p>L&#8217;eccezionale scatto è stato eseguito all&#8217;alba del 7 aprile dall’<a href="https://www.media.inaf.it/2019/03/04/apod-dario-giannobile/">astrofotografo siracusano</a> <b>Dario Giannobile</b>, che si è recato a Gangi, in Sicilia, per catturare questo suggestivo momento. Nell&#8217;immagine scelta, sono visibili più anelli di fumo, o meglio di vapore, emessi con grande sorpresa in questi giorni dall’Etna, il più grande vulcano attivo d’Europa.</p>
  430. <p>Tecnicamente noti come “anelli di vortice vulcanico” (<em>volcanic vortex rings</em>), i cerchi vaporosi vengono generati dalle esplosioni di bolle di gas all&#8217;interno di un condotto stretto sopra una camera magmatica.  Quando il magma sale attraverso il condotto, infatti, la pressione circostante diminuisce, permettendo ai gas disciolti di emergere sotto forma di bolle. Se il magma non è troppo viscoso, le bolle possono fondersi in singolari sacche di gas pressurizzato. Quando si avvicinano allo sfiato, queste sacche di gas possono depressurizzarsi violentemente ed esplodere, spingendo il vapore caldo verso l&#8217;alto a velocità elevate, fino a 40 metri al secondo. A quel punto, le pareti del vulcano rallentano leggermente la risalita degli sbuffi di fumo verso l’esterno, facendo muovere più velocemente il gas interno e creando un cerchio di bassa pressione che fa sì che lo sbuffo di gas e cenere vulcanica emesso si avvolga in un anello, una struttura geometrica familiare che può essere sorprendentemente stabile mentre sale.</p>
  431. <p>Studiati dalla fine del diciannovesimo secolo – ma i primi avvistamenti sull&#8217;Etna risalgono al 1724 – gli anelli vulcanici sono piuttosto rari e richiedono una coincidenza tra la geometria del condotto, la giusta velocità del fumo espulso e la relativa calma dell&#8217;atmosfera esterna. Il fenomeno è stato documentato in diversi apparati vulcanici, tra cui il Vesuvio, lo Stromboli, i vulcani Eyjafjallajökull e Hekla in Islanda, e Momotombo in Nicaragua. Ma, sempre secondo i vulcanologi, nessun vulcano sulla Terra produce tanti anelli di vapore quanto l&#8217;Etna.</p>
  432. <div id="attachment_1752857" style="width: 341px" class="wp-caption alignleft"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752857" class="wp-image-1752857 size-medium" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Schermata-2024-04-23-alle-17.09.25-340x251.png" alt="" width="340" height="251" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Schermata-2024-04-23-alle-17.09.25-340x251.png 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Schermata-2024-04-23-alle-17.09.25-664x490.png 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Schermata-2024-04-23-alle-17.09.25-768x567.png 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Schermata-2024-04-23-alle-17.09.25-1536x1134.png 1536w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Schermata-2024-04-23-alle-17.09.25-660x487.png 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/Schermata-2024-04-23-alle-17.09.25.png 2002w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /><p id="caption-attachment-1752857" class="wp-caption-text">Il Maat Mons, qui in prospettiva tridimensionale generata al computer, è il rilievo vulcanico più elevato del pianeta Venere: si eleva a quasi 5 chilometri sopra il terreno circostante. Crediti: Jet Propulsion Lab / Nasa</p></div>
  433. <p>Il vulcano siciliano, per le sue particolari caratteristiche eruttive e geomorfologiche, è speciale e interessante per tanti altri studi scientifici. <a href="https://www.media.inaf.it/2024/01/17/etna-venere/">Per capire cosa sta succedendo ai vulcani di Venere</a>, ad esempio. A questo scopo, nelle prossime settimane, un gruppo di ricerca guidato da <b>Piero D’Incecco</b> dell’Inaf d’Abruzzo tornerà sull’Etna con una squadra di geologi planetari, vulcanologi, planetologi ed esperti di spettrografia per raccogliere i campioni della lava fuoriuscita più recentemente dai crateri etnei.</p>
  434. <p>«L’ultima <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Sonda_Magellano" target="_blank" rel="noopener">missione Magellano</a> su Venere ci ha mostrato un pianeta ricoperto da ampi bacini di lava solidificata con centinaia di vulcani. Un <a href="https://www.science.org/doi/10.1126/science.abm7735" target="_blank" rel="noopener">recente studio</a> ha confermato che c’è attività vulcanica in corso su Venere, ma abbiamo bisogno di capire di più su che tipo di vulcanismo sia in atto e sul passato geologico del pianeta», dice D’Incecco a <em>Media Inaf</em>. «Per questo motivo, la comparazione spettrale tra i materiali vulcanici “giovani” provenienti dall’Etna con quelli sulla superficie di Venere ci servirà per vedere sostanzialmente come poter identificare e classificare le lave eruttate in tempi recenti dai crateri dell’Idunn Mons e di altri vulcani sul pianeta venusiano».</p>
  435. <p>Dunque, i vulcani su Venere sono ancora attivi? Erutteranno con violente esplosioni o lente effusioni? Potranno anch’essi fare “giochi di fumo”? C’è ancora tanto da scoprire sui misteri del vulcanismo di Venere e il <a href="https://www.media.inaf.it/2024/01/17/etna-venere/">progetto Avengers </a>(Analogs for Venus’ Geologically Recent Surfaces), guidato dall’Inaf d’Abruzzo, si occuperà proprio di selezionare e studiare una serie di vulcani attivi sulla Terra come “pianeta gemello” di Venere. «La collaborazione multidisciplinare tra astrofisici, geologi planetari e vulcanologi», conclude D’Incecco, «sta gettando nuova luce sui fenomeni venusiani. E questa sinergia tra gli esperti sarà protagonista anche della nostra prossima attività di campionamento e analisi delle eruzioni vulcaniche di lava fluida, prevista verso la fine dell’estate, sui vulcani delle Hawaii».</p>
  436. <p>&nbsp;</p>
  437. ]]></content:encoded>
  438. </item>
  439. <item>
  440. <title>Servono regole sulle grandi costellazioni di satelliti</title>
  441. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/23/ragazzoni-torino-addetti-scientifici/</link>
  442. <dc:creator><![CDATA[Redazione Ansa]]></dc:creator>
  443. <pubDate>Tue, 23 Apr 2024 13:01:43 +0000</pubDate>
  444. <category><![CDATA[Astronomia]]></category>
  445. <category><![CDATA[News]]></category>
  446. <category><![CDATA[Presidente INAF]]></category>
  447. <category><![CDATA[Costellazioni di satelliti]]></category>
  448. <category><![CDATA[INAF]]></category>
  449. <category><![CDATA[MAECI]]></category>
  450. <guid isPermaLink="false">https://www.media.inaf.it/?p=1752841</guid>
  451.  
  452. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/23/ragazzoni-torino-addetti-scientifici/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/ragazzoni-addetti-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>Il neopresidente dell'Inaf, Roberto Ragazzoni, nel corso della Conferenza degli addetti scientifici, spaziali e agricoli in corso in questi giorni a Torino, ha sottolineato l’importanza di regolare le costellazioni satellitari in quanto «c’è un grande spazio per la tecnologia italiana al servizio dell’astronomia e si deve riuscire a lavorare perché l’osservazione del cielo non sia disturbata da questa nuova manifestazione della space economy»]]></description>
  453. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/23/ragazzoni-torino-addetti-scientifici/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/ragazzoni-addetti-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><div id="attachment_1752842" style="width: 301px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/ragazzoni-elt.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752842" class="wp-image-1752842" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/ragazzoni-elt-278x340.jpg" alt="" width="300" height="367" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/ragazzoni-elt-278x340.jpg 278w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/ragazzoni-elt-544x664.jpg 544w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/ragazzoni-elt-768x938.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/ragazzoni-elt-660x806.jpg 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/ragazzoni-elt.jpg 1200w" sizes="(max-width: 300px) 100vw, 300px" /></a><p id="caption-attachment-1752842" class="wp-caption-text">Il presidente dell’Inaf Roberto Ragazzoni (in piedi a sinistra) durante il suo intervento a Torino alla Conferenza degli addetti scientifici, spaziali e agricoli delle ambasciate italiane. Crediti: Inaf</p></div>
  454. <p>Servono regole per fare in modo che le grandi costellazioni dei satelliti per l&#8217;internet globale non disturbino le osservazioni astronomiche: lo ha detto il neopresidente dell&#8217;Istituto nazionale di astrofisica, <strong>Roberto Ragazzoni</strong>, nel corso della <a href="https://www.esteri.it/it/sala_stampa/archivionotizie/comunicati/2024/04/al-via-oggi-a-torino-la-conferenza-degli-addetti-scientifici-e-spaziali-e-degli-esperti-agricoli-2024/" target="_blank" rel="noopener">Conferenza degli addetti scientifici, spaziali e agricoli delle ambasciate italiane</a> organizzata dal ministero degli Esteri.</p>
  455. <p>Per il presidente dell&#8217;Inaf bisogna prendere atto che la presenza in orbita delle nuove costellazioni satellitari «è ormai inarrestabile» e che «è un problema da affrontare senza gridare, ma si deve cercare di regolare il più possibile per raggiungere una soglia accettabile». Questo è importante in quanto «c’è un grande spazio per la tecnologia italiana al servizio dell’astronomia e si deve riuscire a lavorare perché l’osservazione del cielo non sia disturbata da questa nuova manifestazione della <em>space economy</em>».</p>
  456. <p>Fra gli esempi di tecnologia italiana al servizio dell&#8217;astronomia, Ragazzoni ha citato il grande telescopio <a href="https://www.media.inaf.it/tag/elt/">Elt</a> dello European Southern Observatory in costruzione sulle Ande cilene: «È un esempio di collaborazione internazionale al quale l’Italia partecipa e in cui c&#8217;è tanta tecnologia nuova». Investimenti in macchine come questa sono importanti, ha osservato il presidente dell&#8217;Inaf, perché l’industria italiana sia sempre più innovativa e sono moltissime anche le possibili ricadute.</p>
  457. <p>È così che «l’Inaf ha affrontato sfide formidabili», ha concluso riferendosi a scoperte straordinarie, come quella delle onde gravitazionali.</p>
  458. <p>&nbsp;</p>
  459. ]]></content:encoded>
  460. </item>
  461. <item>
  462. <title>Prima luce per Hermes</title>
  463. <link>https://www.media.inaf.it/2024/04/23/prima-luce-hermes/</link>
  464. <dc:creator><![CDATA[Ufficio stampa Inaf]]></dc:creator>
  465. <pubDate>Tue, 23 Apr 2024 12:00:36 +0000</pubDate>
  466. <category><![CDATA[Comunicati stampa]]></category>
  467. <category><![CDATA[In evidenza]]></category>
  468. <category><![CDATA[News]]></category>
  469. <category><![CDATA[Spazio]]></category>
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  471. <category><![CDATA[ASI]]></category>
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  478. <category><![CDATA[OAS Bologna]]></category>
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  480.  
  481. <description><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/23/prima-luce-hermes/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/hermes-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a>Progettato per scansionare il cielo alla ricerca di lampi di raggi gamma, lo scorso 27 marzo lo strumento dell’Agenzia spaziale italiana e dell’Istituto nazionale di astrofisica a bordo del satellite australiano Spirit ha raccolto i primi fotoni in modalità osservativa. Spirit è il primo di una costellazione di sette nanosatelliti – i sei restanti saranno lanciati nei prossimi 12 mesi – che ospiteranno ciascuno lo strumento Hermes
  482.  
  483. ]]></description>
  484. <content:encoded><![CDATA[<a href="https://www.media.inaf.it/2024/04/23/prima-luce-hermes/"><img width="96" height="96" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/hermes-150x150.jpg" class="alignleft tfe wp-post-image wp-post-image" alt="" align="left" decoding="async" loading="lazy" /></a><div id="attachment_1752837" style="width: 341px" class="wp-caption alignright"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/spirit.png"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752837" class="size-medium wp-image-1752837" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/spirit-340x240.png" alt="" width="340" height="240" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/spirit-340x240.png 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/spirit-664x469.png 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/spirit-768x543.png 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/spirit-660x467.png 660w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/spirit.png 1536w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1752837" class="wp-caption-text">Rappresentazione artistica del cubesat Spirit. Crediti: University of Melbourne</p></div>
  485. <p>L’Università di Melbourne (Australia), l&#8217;Agenzia spaziale italiana (Asi) e l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) annunciano il successo delle operazioni scientifiche del telescopio spaziale Hermes a bordo del satellite australiano <a href="https://spirit.research.unimelb.edu.au/" target="_blank" rel="noopener">Spirit</a>, <a href="https://www.media.inaf.it/2023/12/02/lancio-spirit-hermes/">lanciato lo scorso 1° dicembre</a> e operativo in un&#8217;orbita eliosincrona, a 513 km sopra la superficie terrestre, completando un&#8217;orbita ogni 96 minuti. Hermes ha raccolto i primi fotoni in modalità “osservazione” per circa dieci minuti durante lo scorso 27 marzo. Questo importante traguardo è chiamato dagli astronomi “prima luce” dello strumento.</p>
  486. <p>Spirit è un satellite di 11,8 kg sviluppato da un consorzio che comprende l&#8217;Università di Melbourne, l&#8217;Asi, Inovor Technologies, Neumann Space, Sitael Australia, Nova Systems in Australia, nonché l’Inaf, la Fondazione Bruno Kessler, l’Università di Tubinga e i loro partner. L’Agenzia spaziale australiana ha sostenuto il progetto con quasi sette milioni di dollari. Il <em>principal investigator</em> di Spirit è <strong>Michele Trenti</strong> dell’Università di Melbourne mentre il coordinatore scientifico del progetto <a href="https://www.hermes-sp.eu/" target="_blank" rel="noopener">Hermes Pathfinder</a> è <strong>Fabrizio Fiore</strong> dell’Inaf.</p>
  487. <p>La fase di <em>commissioning</em> di Spirit e dei suoi <em>payloads</em> – ovvero la fase di calibrazione prima della piena operatività – è ben avviata, con sforzi concentrati sulla verifica di funzionalità via via più complesse. Oltre il 95 per cento dell&#8217;hardware funziona nominalmente, incluso il cuore della missione, il nuovo telescopio spaziale Hermes in grado di rivelare fotoni di energia dai raggi X ai raggi gamma. Il restante lavoro di <em>commissioning</em> si concentrerà sul raggiungimento di un funzionamento continuo e ottimale del satellite lungo la sua orbita, e i team stanno lavorando a stretto contatto per completare questa fase.</p>
  488. <p>Le attività di <em>commissioning</em> sono proseguite con un’analisi delle prestazioni e la calibrazione in orbita, ed Hermes è entrato con successo nella modalità di osservazione nominale il 27 marzo 2024, grazie all&#8217;impegno dedicato di un team composto prevalentemente da ricercatori di prima e media carriera.</p>
  489. <p>Lo strumento Hermes è stato progettato per scansionare il cielo alla ricerca di lampi di raggi gamma, che si creano quando le stelle muoiono o si scontrano e per un attimo emettono più energia di un&#8217;intera galassia. Queste osservazioni possono essere effettuate solo da telescopi spaziali e sono fondamentali per far progredire la nostra comprensione della fisica estrema e hanno anche il potenziale per scovare le tracce della <em>quantum gravity</em>.</p>
  490. <p>«La prima luce osservata con uno strumento spaziale è sempre molto emozionante», commentano <strong>Yuri Evangelista</strong> e <strong>Riccardo Campana</strong> dell’Inaf, responsabili del payload Hermes, dell’integrazione e della calibrazione, «e segna il momento in cui i rivelatori catturano la loro prima visione dell’universo. Per il team dello strumento, la prima luce di Hermes rappresenta anche il culmine di anni di sforzi, con innumerevoli ore di pianificazione, progettazione, sviluppo, test e risoluzione dei problemi del nostro compatto e innovativo monitor per raggi X e gamma. Inoltre, le prime operazioni scientifiche di Hermes/Spirit ci danno fiducia per il successo dello sviluppo e del funzionamento in orbita dei prossimi sei satelliti della costellazione Hermes Pathfinder».</p>
  491. <div id="attachment_1752836" style="width: 341px" class="wp-caption alignleft"><a href="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/hermes-scaled.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" aria-describedby="caption-attachment-1752836" class="size-medium wp-image-1752836" src="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/hermes-340x244.jpg" alt="" width="340" height="244" srcset="https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/hermes-340x244.jpg 340w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/hermes-664x476.jpg 664w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/hermes-768x551.jpg 768w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/hermes-1536x1101.jpg 1536w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/hermes-2048x1468.jpg 2048w, https://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2024/04/hermes-660x473.jpg 660w" sizes="(max-width: 340px) 100vw, 340px" /></a><p id="caption-attachment-1752836" class="wp-caption-text">Lo strumento Hermes in fase di test nei laboratori dell’Inaf Iaps di Roma. Crediti: Inaf</p></div>
  492. <p>Grazie a un design efficiente e ai progressi dei rivelatori a basso rumore e ad alte prestazioni, lo strumento Hermes pesa poco più di 1,5 kg e occupa un cubo di 10 cm di lato, ma è quasi altrettanto sensibile quanto gli strumenti all&#8217;avanguardia a bordo di satelliti centinaia di volte più grandi e massicci, come il Gamma-ray Burst Monitor di <a href="https://www.media.inaf.it/tag/fermi/">Fermi</a>.</p>
  493. <p>Spirit è il primo di una costellazione di sette nanosatelliti che ospiteranno ciascuno lo strumento Hermes. L&#8217;Asi lancerà gli altri sei satelliti della costellazione Hermes Pathfinder nei prossimi 12 mesi. Questa costellazione di telescopi spaziali sarà in grado di scansionare simultaneamente una grande area di cielo alla ricerca di lampi di raggi gamma e di localizzarli grazie all’analisi dei diversi tempi di arrivo del segnale  della sorgente su almeno tre satelliti.</p>
  494. <p>Poiché a Spirit è stato affidato il primo volo dello strumento, il raggiungimento delle operazioni in orbita rappresenta una pietra miliare significativa per l&#8217;intero progetto della costellazione Hermes Pathfinder. Come tipico per i progetti spaziali, il percorso verso il successo ha incluso fasi complesse e alcune sfide inaspettate da superare.</p>
  495. <p>Dopo i test iniziali dell&#8217;unità di controllo dello strumento sviluppata presso l&#8217;Università di Melbourne e dell&#8217;unità di gestione dei dati dello strumento sviluppata presso l&#8217;Università di Tubinga, i rivelatori dello strumento prodotti da Fondazione Bruno Kessler sono stati accesi, ottenendo la &#8220;prima luce&#8221; per il telescopio spaziale Hermes il 16 gennaio 2024, con lo strumento che ha operato in una modalità di base simile a un contatore Geiger.</p>
  496. <p>I dati scientifici vengono ricevuti e distribuiti attraverso un cosiddetto “segmento di terra” parzialmente condiviso tra le missioni Spirit e Hermes Pathfinder come parte dell&#8217;accordo internazionale che regola la cooperazione. Il processamento dei dati e la loro archiviazione vengono effettuati presso lo Space Science Data Center (Ssdc) dell’Asi. L’Ssdc ha inoltre sviluppato il software scientifico per la calibrazione e la pulizia dei dati e ospita il Science Operation Center (Soc) di Hermes.</p>
  497. <p>«Siamo molto soddisfatti di aver contribuito allo sviluppo del rivelatore Hermes a bordo di Spirit e di questa nuova collaborazione con l&#8217;Australia», dice <strong>Simonetta Puccetti, </strong><em>project scientist</em> di Hermes Pathfinder per l&#8217;Asi e responsabile del Soc. «Il risultato dell’analisi dei dati della prima luce è stato entusiasmante. Da un oggetto così piccolo stiamo ottenenendo dati di qualità scientifica comparabile con quella di satelliti di dimensioni considerevolmente maggiori. Grazie a Spirit, stiamo acquisendo informazioni preziose sul comportamento in orbita del nostro rivelatore, che saranno molto utili in previsione del lancio della costellazione Hermes Pathfinder il prossimo anno».</p>
  498. <p>«Durante la mia visita al Centro di controllo della missione dell’Università di Melbourne, ho avuto l’opportunità di seguire da vicino il grande lavoro di messa in funzione del team e di assistere all’emozionante momento dell’arrivo dei primi dati», aggiunge <span style="font-weight: normal !msorm;"><strong>Giulia Baroni</strong></span>, membro del team scientifico Hermes Pathfinder e dottoranda Inaf. «Come studente, considerare il potenziale di questa tecnologia per far progredire scienza innovativa è incredibilmente stimolante, soprattutto sapendo che questo risultato è solo l’inizio».</p>
  499. <p>Il team scientifico non vede l&#8217;ora di completare le attività di messa in servizio e di iniziare la campagna di operazioni scientifiche per scoprire nuovi <a href="https://www.media.inaf.it/tag/grb/">gamma ray burst</a> fino ai confini dell&#8217;universo osservabile.</p>
  500. <p><strong>Guarda l’intervista a Fabrizio Fiore (in italiano, del 2022) su Hermes:</strong></p>
  501. <p><iframe loading="lazy" title="HERMES: interview with Fabrizio Fiore INAF - OATs and Pierluigi Belletti FBK" width="665" height="374" src="https://www.youtube.com/embed/YXXpVKFHOJs?feature=oembed" frameborder="0" allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture; web-share" referrerpolicy="strict-origin-when-cross-origin" allowfullscreen></iframe></p>
  502. <p>&nbsp;</p>
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  504. </item>
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